Il benchmark mondiale del prezzo del petrolio, quello del Brent grezzo, è sceso sotto ai 95 dollari il barile a fine settembre 2014 e sta ancora scendendo. Questo significa un calo del 16% in meno di due anni. Perché?
La crisi economica ha rallentato la richiesta, mentre l’offerta globale è aumentata, soprattutto per il grande aumento di produzione negli Stati Uniti, in Russia, Angola e Nigeria, che ha più che compensato la perdita di produzione dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa coinvolti in guerre civili. Inoltre l’abbondante produzione di gas da scisti a basso prezzo riduce ulteriormente la richiesta di petrolio in alcune regioni del mondo. Potrebbe essere l’inizio di un ciclo pluriennale di bassi prezzi del petrolio, con conseguenze geopolitiche importanti. I paesi che ne avrebbero conseguenze peggiori sono il Venezuela e la Russia.
Il bilancio statale del Venezuela prevede che la sussistenza della popolazione sia garantita se il prezzo del petrolio esportato è di almeno 60 dollari al barile. Ma si parla di sopravvivenza senza sviluppo. Per poter avviare e consolidare un processo di sviluppo occorrono ricavi di 100 dollari il barile dalle esportazioni, perché il Venezuela ha bisogno di investire massicciamente in infrastrutture e di migliorare tutti i servizi sociali, dopo decenni di deterioramento perché il governo di Chavez spendeva tutto subito e non investiva per il futuro.
Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile, che a consuntivo sarà inferiore. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile, che probabilmente non si raggiungeranno. La Russia ha molte riserve in valuta e può sopportare qualche anno di deficit di bilancio – ma deve agire per evitare che i prezzi rimangano bassi troppo a lungo. Il prezzo del petrolio determina indirettamente il prezzo del gas, l’altra risorsa di cui lo stato russo vive. Se scende il prezzo del petrolio, scende anche quello del gas, perché le due fonti di energia sono intercambiabili per una parte di utilizzi, come il riscaldamento e l’alimentazione dei macchinari industriali. In questa situazione uno degli obbiettivi prioritari della politica russa sarà intralciare le possibilità di distensione fra l’Occidente e l’Iran, che aprirebbe la via allo sfruttamento degli enormi giacimenti di gas iraniano per l’esportazione in Europa.
Per quanto riguarda l’Arabia Saudita e gli altri paesi dell’OPEC, prezzi di 90 dollari al barile non provocano ancora danni ai bilanci, perché il costo di estrazione del petrolio in questi paesi è molto basso. Si tratta infatti di giacimenti in zone desertiche, quasi affioranti in superficie, vicinissimi al mare, mentre altri paesi produttori sfruttano giacimenti nel permafrost o nelle profondità marine, che richiedono grandi investimenti e grandi costi per l’estrazione. I paesi dell’OPEC potrebbero, se volessero, sostenere per molti anni una politica di produzione e vendita del petrolio a meno di 90 dollari il barile, mettendo in crisi gli altri produttori mondiali. Infatti in questo periodo di abbassamento dei prezzi l’Arabia Saudita ha aumentato la produzione, concorrendo così alla discesa dei prezzi, e ha già stipulato in anticipo i contratti di fornitura per il mese di novembre con uno sconto importante sul prezzo attuale, che è già basso.
Per i paesi importatori come l’Italia la discesa dei prezzi dell’energia è una buona notizia. I minori costi in dollari all’origine vanno a compensare l’aumento di valore del dollaro nei confronti dell’euro e dovrebbero evitarci rialzi dei prezzi al consumo. In realtà sappiamo che sono appena stati annunciati aumenti al costo dell’energia in Italia − anche se in base all’andamento dei mercati globali il prezzo dovrebbe tendere al ribasso, non all’aumento. Ma la politica dei prezzi dell’energia in Italia ha poco a che fare con il mercato, molto con il fisco e con gli investimenti dell’ENI.
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