Sentiamo commenti sconsolati, impauriti o arrabbiati su ciò che succede in Italia e nel mondo: corruzione, disoccupazione, immigrazione selvaggia, disservizi, disgregazione sociale, nessuna visione chiara per il futuro. C’è sofferenza diffusa, sfiducia pervasiva, disgusto morale.
Fermiamoci a ragionare. Che succede? Le forze fondamentali che plasmano la realtà politica e sociale sono, come sempre, la geografia, il modello di sviluppo economico prevalente, le istituzioni pubbliche.
La fine dell’Unione Sovietica e lo sviluppo tecnologico hanno cambiato la geografia nel corso degli anni ’90. Ora l’Europa non si ferma più all’Elba e al Danubio, ma è tornata a includere i paesi dell’est e a fare i conti con le difficoltà di integrazione della Russia. Ora trasporti e comunicazioni hanno reso i mercati non più nazionali o regionali, ma potenzialmente globali. Il WTO e gli altri grandi organismi internazionali hanno accolto la sfida e abolito quasi tutti gli ostacoli al libero scambio di merci e di tecnologia e di pensiero fra tutte le parti del mondo. Il mercato globale è davvero aperto.
È così cambiato il modello di sviluppo economico prevalente: la grande industria di beni di consumo da noi è morta, ma è ancora in sviluppo nei paesi asiatici, dove c’è un mercato potenziale di alcune centinaia di milioni di persone povere che aspirano a raggiungere il livello di vita e di consumo che noi avevamo nei tardi anni ’60, e che lavorano intensamente per produrre a basso costo. L’industria di prodotti tecnologicamente avanzati e innovativi è in sviluppo in tutte le zone culturalmente ed economicamente privilegiate del globo, ma non può dar lavoro a tutti. È un’industria di élite, non una produzione di massa. Appena diventa prodotto di massa, come è successo ai telefoni cellulari, la produzione si sposta nei paesi in cui esistono masse di ottimi produttori a basso costo, cioè in Asia. Da noi in Occidente la produzione di massa è morta o moribonda. Il nuovo modello di sviluppo in Europa sarà bipolare: da un lato industrie e servizi di altissimo livello scientifico, tecnologico, culturale, aperte al mercato globale; dall’altro prodotti e servizi locali, che sfrutteranno al meglio le risorse e le tradizioni locali. Infatti stiamo puntando sull’agricoltura, sul cibo, sulla cucina, sul turismo. Dovremmo anche potenziare l’artigianato locale di alta qualità, far rivivere tradizioni che abbiamo ucciso con le politiche degli anni ’70 e ’80.
Giungiamo cosi al ruolo delle istituzioni pubbliche, che in Europa oggi sono ovunque inadeguate. Il ruolo fondamentale delle istituzioni pubbliche consiste nel regolare lo sviluppo in modo da garantire un’equa e ampia fruizione delle risorse da parte della popolazione (coesione sociale), e accumulare abbastanza risorse comuni per proteggere la comunità da aggressioni esterne e interne (difesa, sicurezza, giustizia). Le parole chiave sono dunque ‘risorse’ e ‘comunità’. Le ‘risorse’ non sono in crescita, ma in contrazione, perché è cambiato il modello di sviluppo e dobbiamo ancora adeguarci ai cambiamenti. La ‘comunità’ di cui le istituzioni debbono assumersi la responsabilità non ha più confini netti. Gli stati nazionali, ossatura salda delle istituzioni in Occidente da circa 200 anni, hanno ceduto poteri e competenze da una parte alle istituzioni dell’Unione Europea, dall’altra alle regioni al proprio interno. Ora stanno nascendo anche nuove istituzioni trasversali, che potrebbero portare anche a cambiamenti di confini nell’arco di qualche decennio: le Euroregioni − da non confondere con le Regioni Europee. Si tratta di macroregioni che attraversano i confini nazionali, accorpate in bacini di sviluppo di infrastrutture comuni, che hanno accesso a finanziamenti europei, saltando il livello nazionale. Sono cioè strutture sovranazionali che attraversano lo stato ignorandolo. Servono per legare comunità a cavallo delle frontiere, ma le rendono più indipendenti dagli stati nazionali dal punto di vista finanziario, rafforzando eventuali spinte separatiste. Una di queste Euroregioni ad esempio lega la Catalogna a Linguadoca- Rossiglione-Midi-Pirenei in Francia. Un’altra lega il Trentino Alto-Adige al Tirolo austriaco. È appena nata, nel pieno disinteresse dell’opinione pubblica, la Euroregione delle Alpi. ‘È di queste ore il via libera formale dell’Europa al riconoscimento di questo nuovo livello istituzionale che raggruppa 48 regioni di 7 stati, dalla Savoia alla Slovenia, passando per Germania, Austria, Svizzera (novità europea), Liechtenstein per un totale di 70 milioni di abitanti’ scriveva giovedì 11 giugno 2015 sul Sole 24 ore Alberto Orioli. È una vittoria della Lega, che ha fatto campagna per anni per ottenerne il riconoscimento, invocando la ‘comune identità ‘ e la ‘forte tradizione di autonomia’ delle aree alpine. In Italia ne fanno parte Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Veneto.
La Germania è al centro di una rete di ben 20 grandi Euroregioni transnazionali, che la legano economicamente a tutta l’Europa dell’Est, oltre che alla Francia e al BENELUX. La Germania non condivide invece nessuno spazio in nessuna Euroregione con la Grecia, l’Italia, il Portogallo o la Spagna. La Grecia fa parte dell’Euromed e condivide due minuscole euroregioni con la Bulgaria e la Macedonia. È chiaro quali aree d’Europa riceveranno grandi finanziamenti europei attraverso le Euroregioni e quali non riceveranno quasi niente.
Le Regioni italiane che fanno parte della nuova Euroregione, da un lato sono legate allo stato italiano da un sistema di trasferimenti di risorse e di poteri messo in atto con l’istituzione delle Regioni nel 1970, dall’altro potranno presto finanziare progetti di sviluppo all’interno della nuova Euroregione senza neppure parlarne con lo stato. I governi di queste Regioni potranno giocare su due tavoli e potranno esser ‘servitori di due padroni’ per ottenere finanziamenti. Tenderanno a seguire il padrone più generoso? Il più potente? Il più vicino, o il più lontano?
Dagli anni ’70 in poi il decentramento di poteri e di competenze alle Regioni e ai Comuni ha moltiplicato la corruzione: non siamo predisposti per natura a essere più corrotti di altre popolazioni, ma abbiamo creato meccanismi istituzionali che sono incitamenti alla corruzione e allo spreco, in quanto i cittadini pagano tasse allo Stato per ricevere servizi da Regioni e Città i cui governatori non rendono conto della spesa né ai cittadini utenti dei servizi, né ai cittadini contribuenti. È come se i Torinesi pagassero il pane a un fornaio di Roma, che lo fa consegnare dall’unico fornaio che ha diritto di fare il pane a Torino, ma non è dipendente di quello di Roma; ha soltanto un accordo di esclusiva per fornire il pane a Torino. Se il pane è scarso o cattivo e ce ne lamentiamo con il fornaio di Torino, costui dice che con i soldi che riceve da Roma ci dà fin troppo, dobbiamo perciò lamentarci con Roma. Il fornaio di Roma ci dice che i soldi li ha dati al fornaio di Torino, ma non riesce a fargli fare pane migliore, perché non è un suo dipendente. Fra il fornaio di Roma e quello di Torino sprechi, disorganizzazione e ruberie possono erodere le risorse date per il pane, senza che noi clienti (contribuenti) sappiamo chi ne è realmente responsabile. Questo per fortuna non succede davvero con il pane, ma succede ad esempio con la sanità, e con tanti altri servizi.
Se le regioni italiane all’interno dell’Euroregione alpina potranno giocare anche sul tavolo europeo senza passare tramite lo stato, né tramite la raccolta diretta delle tasse dagli abitanti, avranno più soldi da poter utilizzare per creare reti di clienti politici. Aumenterà il potere dei politici locali. Aumenterà la possibilità di corruzione e sprechi. Diminuiranno i poteri dello stato centrale, al quale però continueremo a chiedere sicurezza, giustizia, politiche per lo sviluppo, per l’immigrazione, per la scuola, per i giovani, nonché il pagamento delle pensioni. Perché né l’Unione Europea né le Regioni italiane né le Euroregioni hanno responsabilità e competenze in questi settori, che sono fondamentali per la vita della comunità − una comunità che continua a vivere la politica e a percepire il potere a livello nazionale, più che locale o europeo.
Abbiamo creato un’Unione Europea molto più simile al Sacro Romano Impero Germanico d’epoca medievale che agli Stati Uniti d’Europa. Abbiamo creato i sembianti di un impero senza un vero potere imperiale, ma dotato di sufficienti strumenti per mettere e repentaglio il potere dei singoli stati e sobillare i governatori locali contro i loro stati. Proprio come al tempo del Sacro Romano Impero Germanico. In questo simulacro di impero domina anche oggi la Germania, senza però avere né il potere né il dovere di gestire l’impero al meglio. Così fa al meglio i propri interessi.
A questo coacervo di problemi sgorgati dai radicali cambiamenti avvenuti dagli anni ‘90 in poi (nella geografia, nel modello di sviluppo economico e nelle istituzioni) si è ora aggiunta la spaventosa guerra di tutti contro tutti nel mondo islamico alle nostre porte, che ci minaccia in più modi. Il pericolo più grave è la possibilità di ritrovarci fra alcuni anni con milioni di nuovi residenti o cittadini che avranno una concezione dei diritti della persona ferma al XVI secolo. Occorrerà educazione, educazione − tanta educazione dei bambini per poterli integrare, altrimenti a soccombere saranno i nostri diritti.
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