Anche nei decenni a venire la potenza degli USA non avrà pari al mondo, nonostante il gran parlare che si fa della sua decadenza e del parallelo rafforzamento della Cina.
In che cosa consiste il potere? Ridotto all’essenziale, il potere è la capacità di imporre agli altri la propria volontà o per farli desistere da comportamenti che si ritengono nocivi ai propri interessi. Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli USA sono la maggior potenza globale, da trent’anni sono l’unica superpotenza mondiale, capace cioè di agire in qualunque parte del globo. Gli USA hanno il pieno controllo militare dell’Atlantico e del Pacifico, un’economia che produce ancora circa il 50% più della Cina e non dipende, contrariamente a quella cinese, dalle esportazioni, una tecnologia all’avanguardia in quasi tutti i settori, il controllo degli equilibri monetari e finanziari di tutti i paesi che usano il dollaro come moneta di riferimento per gli scambi internazionali.
La seconda potenza è la Cina, ma sia dal punto di vista sia economico che militare è ben lontana dal poter vincere un braccio di ferro con gli USA. In prospettiva la Cina è più fragile degli USA nei prossimi decenni, perché ha un’economia che dipende ancora per circa il 18% dalle esportazioni e perché ha grandi squilibri al suo interno: le regioni costiere sono molto più ricche di quelle interne, e le nazioni incorporate all’interno non sono del tutto integrate e assimilate e potrebbero cogliere occasioni per ribellarsi e cercare di rendersi indipendenti, soprattutto gli Uiguri.
Gli stati esercitano il proprio potere con tre strumenti, usati in modo strategico e ben coordinato: la potenza militare, la potenza economica, la potenza comunicativa della propria cultura verso l’esterno. Quando avvengono fatti che incrinano la potenza comunicativa della cultura egemone da lungo tempo, gli altri popoli tendono a vedervi l’annuncio del suo prossimo crollo, forse perché se lo augurano, sperano in cambiamenti che aprano loro nuove opportunità. Ma finché non cambiano i fondamentali rapporti di potere economico e militare gli equilibri egemonici non cambiano. L’Unione Sovietica non fu mai in grado di sfidare e vincere l’America, nonostante l’efficacissimo potere comunicativo della propria cultura politica e sociale; potenza militare e potenza economica non furono mai a livelli paragonabili, anche se alcuni grandi exploit russi, come il mandare il primo satellite in orbita con Gagarin, fecero pensare a molti che l’URSS fosse uno sfidante davvero pericoloso per gli USA e che il mondo fosse in bilico, perciò alla possibile vigilia di una nuova guerra mondiale. Lo pensavano anche molti Americani nel periodo del Mccartismo. Invece la rivalità fra le due potenze continuò ma si giocò soltanto in teatri regionali lontani, ai margini delle rispettive zone di influenza, come il Vietnam. Ma fallimenti o sconfitte locali in aree lontane dal proprio territorio, come quella del Vietnam, non cambiano gli equilibri: consumano risorse e sono pessima pubblicità, ma servono a sperimentare e aggiornare armamenti e tattiche da parte della grande potenza e riducono in ginocchio soltanto le popolazioni sul cui territorio la guerra viene combattuta. Le guerre dirette fra grandi potenze, che diventano guerre mondiali, si scatenano quando a sfidarsi sono stati di potere economico e militare davvero simile, come avvenne nelle due guerre mondiali del XX secolo. In entrambe a determinare vittoria e sconfitta fu l’ingresso degli USA nel conflitto. Gli stati europei che avevano scatenato la guerra erano davvero di potenza comparabile, la guerra era per la sopravvivenza e si sarebbe conclusa con la competa distruzione d’Europa senza l’intervento americano.
L’attuale percezione della potenza della Russia o della Cina al di fuori dei loro confini è costruita dalla propaganda. La Russia di Putin usa spesso la forza militare in modo propagandistico: l’ha fatto in Cecenia nel 2008, in Siria negli scorsi anni. Dal punto di vista militare ed economico questi interventi non hanno portato a nessun effettivo rafforzamento della potenza russa, ma ne hanno rafforzato grandemente la percezione all’estero. La Belt and Road Initiative è un programma ambizioso di espansione della potenza culturale ed economica cinese verso l’esterno, ma occorreranno decenni (se tutto va bene) per raccoglierne risultati che aumentino davvero il potere cinese e non soltanto la percezione di una sua crescente egemonia. Viene in mente la famosa ferrovia Berlino-Baghdad, concepita come strumento per l’espansione economica e politica del potere tedesco nella prima metà del XX secolo, che fu invece l’occasione per lo scoppio della Prima guerra mondiale e la sconfitta della Germania.
La questione di quanto può estendersi il potere cinese e quanto può ritrarsi quello americano è però di grande importanza per noi Italiani, perché la nostra posizione geografica ci pone ai margini della sfera di interesse di entrambi i paesi, così come tutta l’area orientale del Mar Mediterraneo e i paesi che vi si affacciano. La nostra area di interesse primario ai fini della sicurezza e dello sviluppo commerciale è ovviamente tutto il Mar Mediterraneo. Fino al 1500 l’Italia visse di rapporti politici, economici e culturali con gli altri paesi del Mediterraneo, soprattutto con il Medio Oriente, area di transito degli scambi con tutta l’Asia, fino alla Cina: basti ricordare la Repubblica veneziana e Marco Polo. Poi l’Impero Ottomano rese economicamente impossibili i grandi scambi via terra con l’Asia, esigendo troppe tasse e troppi privilegi, mentre si sviluppavano i viaggi oceanici che aprivano nuove vie agli scambi, oltre che alle conquiste. Oggi quanto potrebbe beneficiare l’Italia da accordi strategici con la Cina? Siamo ai margini, e i margini sono posizioni che offrono più libertà di manovra, ma sono anche zone molto pericolose, perché spesso è proprio lì che scoppiano le ‘guerre per procura’ fra potenze che si sfidano: non dobbiamo metterci a rischio di diventare un futuro Vietnam, o un futuro Afghanistan. Come fare per evitarlo? Conviene schierarsi apertamente a priori e fare opera di convincimento della popolazione? O conviene barcamenarsi e aspettare, facendoci corteggiare da entrambe le potenze e ricavandone il massimo aiuto possibile per il nostro sviluppo economico? Il rischio maggiore si gioca sul fronte interno. Se a lungo andare il barcamenarsi portasse a una forte divisione interna fra Italiani filo-cinesi e Italiani filo-americani, aumenterebbe la probabilità che in futuro le due potenze possano affrontarsi proprio sul nostro territorio, alimentando una guerra civile.
Per noi Italiani l’area da osservare e seguire con maggiore attenzione è l’Africa, così vicina al nostro territorio, proprio alle porte di casa. L’Africa soltanto ora si affaccia davvero al mercato globale e alla politica mondiale con le sue popolazioni in grandissima crescita, alcune delle quali dotate di molte risorse e in rapido sviluppo, altre alla ricerca disperata di risorse o di luoghi di migrazione. A lungo termine quello che succede in Africa sarà per noi più importante di quanto succede in Cina o in India o negli USA, perché avrà un impatto più diretto e immediato sul nostro territorio e sulla nostra vita. Dobbiamo esserne consapevoli. Potrebbe essere l’Africa il continente su cui si scontreranno in futuro gli interessi delle medie e grandi potenze, come già sta avvenendo in Libia e in Mali, ma noi saremmo il paese del Mediterraneo che ne porterebbe le conseguenze più pesanti, come da qualche anno la Turchia subisce le conseguenze delle guerre in Siria e in Afghanistan, perché è lì che si affollano tutti i profughi ed è ai suoi confini che infuriano i combattimenti.
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