Ieri la cinese HuaWei ha lanciato sul mercato nuovi server che usano un nuovo super-chip (il Kunpeng 920) non più della Intel, ma interamente di progettazione cinese. È un primo passo importate per rendersi indipendente dalla tecnologia americana, dopo l’inizio della ‘guerra dei dazi’. Ma oggi una riflessione del grande George Friedman su Geopolitical Futures mi fa pensare che si tratti ormai di questione di scarsa importanza, perché anche i cellulari e i computer più avanzati sono diventati banali oggetti di consumo, non sono più tecnologie dirompenti e ambite, capaci di cambiare la nostra vita: è una fase finita. Le sue riflessioni e i suoi ricordi ne evocano altri simili in me, che appartengo alla stessa generazione.
Anch’io comperai il primo calcolatore digitale nel 1972 a Hong Kong: un Casio grande come un mattone, che faceva istantaneamente calcoli con numeri di 9 cifre! Amici e conoscenti venivano a gruppi la sera a vedere tale meraviglia a casa mia. Poi si faceva notte discutendo animatamente di quali evoluzioni avrebbero portato i microprocessori nelle nostre vite e nel futuro della civiltà umana, ma senza immaginare mai la trasmissione immediata a grande distanza di ogni tipo di dati. Nel 1980 comperai dall’IBM il primo sistema di computer per l’azienda e feci il corso per capirne le possibilità: avrei potuto destinare ad altri compiti più complessi le otto persone che ogni giorno scrivevano bolle di spedizione e fatture a mano, ma avrei avuto bisogno di almeno tre programmatori fissi. Meno di due anni più tardi nel mio ufficio di Londra già sostituivo il solito telex con il primo sistema di videoscrittura disponibile sul mercato, mentre si stava sviluppando la macchina più miracolosa: il fax. Poi venne il primo PC con fotocopiatrice e stampante a colori, pagato alla Canon 80 milioni di lire, tanto quanto un alloggio di periferia a Torino. Quindi l’uso abituale della posta elettronica in sostituzione di qualunque altra forma di comunicazione, e dei primi telefoni con piccoli computer portatili, di nuovo grandi come un mattone, che funzionavano anche per strada, in montagna o in mezzo al deserto grazie al GPS! Un vero miracolo, ma durarono poco, sostituiti in un batter d’occhio dai cellulari tipo Blackberry. Le successive novità rivoluzionarono ancora la vita dei privati, ma non più quella delle aziende. La tecnologia del microprocessore stava già per diventare commodity, bene di consumo di massa, non era più strumento di rivoluzione dell’economia e della società.
Friedman paragona l’evoluzione del microprocessori e dei prodotti che ne sono derivati a quella del motore a scoppio e dei prodotti che ne sono derivati, in particolar modo l’automobile. La nascita dell’automobile nel 1915 fu accompagnata da un’altra invenzione rivoluzionaria, che avrebbe trasformato le economie e i sistemi di vita del mondo intero: la linea di montaggio, inventata da Ford negli USA. Ma attorno al 1965 queste tecnologie avevano raggiunto il massimo del loro potenziale in quanto agenti di cambiamento e stavano diventando prodotti di consumo di massa, commodities. Non generavano neppure più grandi fortune: la produzione di automobili era un pilastro dell’economia, ma era questione di marketing e di capacità manageriale e tecnica, non di grandi innovazioni né di grandi visioni. Le nazioni più disciplinate e meglio organizzate raggiunsero il primato nella produzione: il Giappone, la Germania. Le aziende automobilistiche americane decaddero già a partire dagli anni ’70.
Oggi lo stesso fenomeno sta succedendo ai prodotti sviluppati dalla tecnologia dei microprocessori. L’uscita di un nuovo cellulare non fa più rumore di quanto ne facesse negli anni ’80 l’uscita di un nuovo modello di automobile, come dimostra il recente flop della Apple. Non si tratta più di vera innovazione potente e creativa, capace di trasformare le nostre vite, ma soltanto di migliori processi di produzione.
Da dove verrà la prossima innovazione capace di trasformare il nostro modo di vivere e di lavorare? Friedman risponde che tendiamo sempre a credere che le innovazioni proverranno da ardite evoluzioni della più recente tecnologia di punta, ma non è mai così: l’innovazione rivoluzionaria è sempre inaspettata. Forse esiste già, ma non ne vediamo ancora il potenziale, bisogna aspettare un genio innovativo che sappia vederlo e sfruttarlo. La mia generazione ha creduto di poter fare viaggi sulla Luna prima dell’età della pensione; io ho aspettato con fiducia il giorno in cui il Concorde (l’aereo supersonico) sarebbe partito direttamente da Torino e da tante altre città e sarei andata a pranzo dagli amici a New York tornando in giornata. Invece l’innovazione trasformatrice non venne dai motori, ma dai microprocessori.
Oggi tutti prevedono che la prossima grande svolta verrà dall’intelligenza artificiale, dai robot e da una miriade di dati immessi in rete e processati in tempo reale. Ma Friedman dice che ‘se c’è una cosa che non capiamo è l’intelligenza e mettersi a inventare qualchecosa di analogo a una cosa che non capiamo non sembra un’impresa promettente’.
Senza contare i costi: il Concorde chiuse i battenti perché dimezzava i tempi di volo ma per raggiungere quel risultato costava cifre spropositate; i viaggi sulla Luna non si fanno perché il costo sarebbe irragionevole rispetto al risultato atteso. Raccogliere in rete grandi quantità di dati da dare in pasto all’intelligenza artificiale sarebbe probabilmente un’impresa altrettanto squilibrata nel rapporto costo-benefici.
La mia generazione avrà la fortuna di vedere nascere ancora un volta l’avvio di un diverso futuro? È poco probabile, perché di innovazioni tecnologiche davvero rivoluzionarie non se ne vedono più di un paio al secolo, in periodi molto fortunati. In alcuni secoli non se ne è vista nessuna.
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