Estratti da un saggio apparso su Geopolitical Futures.
Il mondo è in transizione da un modello basato sulla contrapposizione liberali/conservatori a un modello basato sulla contrapposizione internazionalisti/nazionalisti. Il punto di rottura del vecchio modello, fondato nel 1945, è stato il 2008, quando la crisi finanziaria ed economica ha messo a nudo i difetti e i limiti della globalizzazione economica e politica. Il nuovo modello forse sarà di durata relativamente breve, ma misurabile comunque in decenni, non in una manciata d’anni.
Alla fine della Seconda guerra mondiale i nazionalismi e il protezionismo economico, considerati causa della guerra, furono superati dalla creazione di una nuova struttura internazionale: vennero fondate l’ONU, la Banca Mondiale, l’Alleanza Atlantica, furono poste le basi per la creazione dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale. Internazionalizzazione e integrazione divennero la parola d’ordine, l’obiettivo da raggiungere in tutti i campi, nonché l’imperativo morale di generazioni. La tradizionale distinzione fra destra e sinistra su base socio-economica venne erosa e sostituita da differenze su posizioni etiche, ad esempio sull’aborto o sui diritti degli omosessuali. Persino i regimi autoritari o dittatoriali concordarono sulla positività dell’integrazione commerciale, perciò necessariamente in qualche misura anche culturale.
Ma la crisi del 2008 mise all’improvviso in dubbio la fiducia nel modello internazionalista. Il sistema finanziario, il più integrato a livello globale, innescò il primo disastro, seguito da una crisi economica globale di cui ancora non abbiamo visto la fine. È vero che la globalizzazione migliora l’economia globale, ma le persone non sono ‘globali’, vivono in specifiche realtà, molte delle quali andarono deteriorandosi rapidamente. Divenne evidente che nella globalizzazione c’erano i vincenti e i perdenti. Le nazioni del Sud Europa, per esempio, erano tra i perdenti. Non le nazioni nella loro interezza, perché le élite videro migliorare le prospettive ovunque, anche nei paesi che andavano peggiorando a causa della delocalizzazione delle imprese. I banchieri tedeschi e quelli greci probabilmente hanno vite simili, con simili prospettive, ma i carpentieri tedeschi e quelli greci no. Si vide chiaramente che nell’internazionalizzazione le nazioni perdevano il controllo del proprio destino. La libertà di movimento, tanto cara alle élite, è cosa di cui gli umili e i poveri non sanno che fare, perché non hanno soldi per viaggiare o per studiare all’estero. E si vide che la politica nazionale non poteva cambiare la situazione, in Grecia come in Italia, o nelle pianure del Midwest americano. Questo segnò il punto di svolta: le popolazioni rivalutarono il nazionalismo. In tutti gli stati occidentali i governi cercarono di combatterlo, ma la loro opera di convincimento fu travolta dalla crisi migratoria, che non soltanto creava competizione per posti di lavoro che andavano riducendosi, ma minava anche le fondamenta culturali e le abitudini di vita della popolazione. Né in Grecia, né in Germania, né negli USA i banchieri o i professori universitari o i manager di multinazionali vedevano modificarsi i loro quartieri e la loro vita, ma il resto della popolazione sì. La reazione delle élite al nazionalismo delle popolazioni è stata per anni il disprezzo, soltanto ora si sta tentando di capire.
Il globo è vasto e l’umanità è un concetto astratto. Le singole persone, i singoli luoghi del mondo e le singole culture sono la realtà con cui la politica deve fare i conti. Il principio chiave del pensiero liberale e della democrazia è il diritto all’autodeterminazione dei popoli, non il livellamento dell’umanità. Il nazionalismo però non ha mai risolto la questione di chi è incluso o escluso dalla nazione, questo è sempre stato il suo fallo, e ora riprendere la discussione diventa più urgente che mai.
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