Ecco la risposta alla domanda di Primo Levi, ‘se questo è un uomo’. Sì, pare rispondere il film di László Nemes, questo è un uomo, che nell’inferno disumanizzante e orrendamente abietto del campo di sterminio cerca di dare sepoltura a un ragazzo, di compiere un gesto che è affermazione di umanità, dunque di ribellione al sistema del campo, così come il tentativo di rivolta armata dei compagni del Sonderkommando. Saul cerca di non guardare l’orrore che lo circonda e in cui è obbligato a immergersi, né cerca di vivere qualche ora o qualche giorno di più, ma persegue ostinatamente, ossessivamente, lo scopo che si è dato: compiere per quel ragazzo innocente un gesto di pietà umana, perché quel ragazzo è un figlio, il figlio dell’Uomo. Il regista ci fa assistere al tentativo del protagonista come se fossimo dentro i suoi occhi e le sue orecchie: senza mettere a fuoco l’orrore, senza ascoltare i colpi, le grida, gli stridii, gli spari che pure sentiamo incessantemente. Siamo anche noi chiusi nella sua testa, nella sua ostinazione, nella sua ricerca, pur nella consapevolezza di essere all’inferno.
Saul è il nome del primo re degli Ebrei, che venne sconfitto e ucciso insieme al figlio Gionata. Il protagonista del film si chiama Saul Auslander, cioè Saul lo Straniero. Il giovanetto il cui cadavere Saul vuol sottrarre allo scempio era uscito vivo dalla camera a gas – segno stupefacente di distinzione, anche se un nazista l’aveva poi ucciso. Saul vede in questo un segno, la possibilità di un miracolo, e al miracolo crederà fino agli ultimi istanti di vita. Ma il vero miracolo è la sua fede, pur nell’inferno di Auschwitz.
Laura Camis de Fonseca
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