Da un articolo di George Friedman per Strategic Forecasting
Il presidente Obama negli ultimi anni è stato più volte attaccato per le sue scelte in politica estera. A sua difesa possiamo ricordare che le scelte degli stati sono spesso dettate da forze geopolitiche esterne piuttosto che da prese di posizioni individuali. Quanto contano davvero le scelte di un presidente?
Quando Obama venne eletto per la prima volta il paese era in preda a una difficile crisi finanziaria e alle prese con due lunghe e difficili guerre in Medio Oriente che sembravano non avere fine. E non poté fare altro che seguire il corso degli avvenimenti e gestire la situazione che aveva ricevuto in eredità, esattamente come avevano fatto i due presidenti che lo avevano preceduto.
Gli Stati Uniti hanno un potere enorme, ma non illimitato, e alcune scelte possono avere conseguenze inaspettate. Se gli USA non avessero eliminato i baathisti dall’Iraq, probabilmente ora non dovremmo confrontarci con l’ISIS. Ma una volta lanciata l’invasione, qualsiasi scelta avrebbe generato conseguenze nell’una o nell’altra direzione, e mantenere al potere gli eredi di Saddam avrebbe potuto causare reazioni negative fra gli Sciiti e i Curdi nel paese.
Il presidente americano, che guida un paese di 300 milioni di persone in un mondo di nazioni, può presiedere ma non governare il mondo. È costantemente sotto pressione, e non può essere al corrente di tutto quanto accade. E anche se lo sapesse, non è detto che potrebbe intervenire per raggiungere i risultati sperati.
Ora è il 2014, gli Stati Uniti sono in guerra ormai dal 2001 – dall’inizio del secolo insomma. Niente di paragonabile alle guerre del secolo scorso, ma comunque il numero degli interventi armati contro il jihadismo nel mondo drena parecchie risorse ed è insostenibile a lungo termine – per qualsiasi nazione – specialmente se non si ha in mente un obiettivo preciso.
Dall’epoca della guerra in Kosovo nel 1999 gli USA sono sempre intervenuti nei vari teatri di guerra per stabilizzare la situazione. Obama ha cambiato il paradigma nella politica estera dichiarando da un lato di non voler intervenire, almeno fino a quando il problema non diventa tale da minacciare direttamente gli interessi americani. Anche in caso di intervento gli USA si riservano il diritto di intervenire in modo limitato – ad esempio compiendo attacchi aerei – dopo aver creato una serie di alleanze locali in grado di gestire la situazione sul terreno, per evitare di accollarsi tutto il peso delle operazioni. Soltanto se la situazione diventa eccessivamente grave l’amministrazione americana contempla un intervento su larga scala.
Sembra logico e chiaro, ma… che cos’è l’interesse nazionale? Per alcuni la difesa dei diritti umani è interesse nazionale, per altri soltanto un pericolo di attacco diretto lo è. E come stabilire i tempi dell’intervento?
Senza contare che alleati tradizionali come la Germania non sono affatto inclini a lanciarsi in avventure militari, e anche la Turchia non ha intenzione di sobbarcarsi il peso di un intervento in Medio Oriente.
Spesso non sono i presidenti a controllare la situazione, ma è la situazione a controllare i presidenti.
Per avere una strategia che funziona ed esercitare un minimo di controllo sulla situazione i presidenti non devono limitarsi a elaborare principi astratti, ma devono avere bene in mente un obiettivo. Nixon ad esempio sapeva di voler avviare rapporti con la Cina per isolare l’URSS, e di voler stringere alleanza con l’Egitto per sabotare la strategia sovietica nel Mediterraneo, ed era disposto a stringere alleanze con chiunque – da Mao Zedong a Sadat – indipendentemente dalla fede politica, pur di raggiungere l’obiettivo. Allora Henry Kissinger, da grande maestro qual era, organizzò nei minimi dettagli la strategia con dovizia e rigore. Perché i principi sono utili ma devono essere seguiti da una chiara strategia e da una corretta esecuzione. All’epoca era necessario essere accorti per evitare eventuali contromosse sovietiche, e Kissinger fu un maestro in questo senso.
Obama non ha saputo elaborare principi sufficientemente chiari per implementare una strategia precisa. E se anche in futuro sapesse dare una definizione rigorosa degli interessi nazionali, non basterebbe: servono anche abilità, rigore e determinazione per trasformare i principi in azione. Tutti i presidenti del dopo Guerra Fredda, da Clinton a Bush ad Obama, hanno avuto le stesse debolezze in politica estera.
Nella sfera dei principi i presidenti possono essere incisivi, ma il vero segreto sta nella tattica: è questo il livello dove si può davvero incidere e dove si può cambiare il corso della storia. Dalla fine della Guerra Fredda i presidenti USA non sono più riusciti a intervenire profondamente sul corso della storia, né con i principi, né nella tattica. Forse era inevitabile: occorre adattarsi a un nuovo paradigma mondiale…
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