È il titolo del nuovo libro (God’s Century: Resurgent Religion and Global Politics) di Thimothy Shah, Daniel Philpott e Monica Toft, docenti di scienze politiche in varie università americane.
Ancora vent’anni fa nelle università americane ai futuri funzionari e dirigenti politici e militari veniva spiegato che il mondo stava vivendo un processo di superamento delle società tradizionali, che avrebbe portato alla diminuzione del ruolo delle religioni ovunque, e avrebbe rivoluzionato soprattutto le società islamiche. L’islam veniva dichiarato incapace di resistere alla modernità, intesa soprattutto come inevitabile secolarizzazione delle strutture e dei rapporti sociali.
Gli autori sostengono che invece nel mondo contemporaneo le religioni giocano un ruolo più importante che nei due secoli precedenti, e portano molti esempi a sostegno della loro tesi.
Il 18 febbraio 2011 Yusuf al-Qaradawi guidò la preghiera in piazza Tahrir chiamando la folla di giovani devoti ‘nuovi partigiani di Dio’. I Fratelli Mussulmani sono una forza politica e sociale con cui tutto il Medio Oriente deve fare i conti. Molti la considerano una organizzazione ‘secolare’, altri la vedono come una setta estremista e violenta: l’unica cosa certa è che vuole l’applicazione della legge islamica, e che è un movimento in costante crescita. I Cristiani Copti in Egitto definiscono più che mai la propria identità in base alla fede.
Le dimostrazioni contro il regime in Myanmar sono state condotte negli scorsi anni da monaci buddisti; i nazionalisti Hindu hanno un ruolo importante nella politica indiana, come i Pentecostali in Brasile e in Nigeria. Il Papa ebbe un ruolo importante nella ribellione della Polonia ai sovietici negli anni ‘80, i leader musulmani ebbero un ruolo importante nell’abbattimento del regime di Suharto in Indonesia nel 1998. I Cattolici ruandesi alimentarono l’odio contro i Tutsi, e non raramente le chiese locali parteciparono ai massacri.
Dall’analisi del ruolo giocato dalle religioni nei grandi eventi politici degli ultimi 30 anni gli autori ricavano la convinzione che la globalizzazione offre alla religioni più strumenti di espansione che di emarginazione. Stilano poi una specie di statistica dei casi in cui le strutture religiose hanno giocato un ruolo importante per una maggiore liberalizzazione, e altri in cui sono state strumento di oppressione anche violenta. La differenza pare costituita dal fatto che le strutture religiose siano o non siano indipendenti dallo stato. Quando le strutture religiose e teologiche sono totalmente indipendenti dallo stato, sono strumenti di liberazione dalla tirannide. Se fanno parte dello stato o sono legate allo stato, sono strumenti di violenza e di tirannide. L’esempio tipico è quello dell’Algeria, dove il governo autoritario negli anni ‘90 si alleò con l’islam moderato contro l’islam jihadista: il risultato furono 200.000 morti civili in quattro anni. L’esempio opposto è quello del Sudafrica, dove la chiesa anglicana, indipendente dal potere statale e pubblico, si è dimostrata forza di pacificazione democratica.
Nelle 133 guerre civili che secondo gli autori si sono avute nel mondo dopo il 1945, 42 hanno avuto base religiosa. Mentre le guerre civili su altre basi durano un arco di tempo ridotto, le guerre civili religiose proseguono a lungo. La metà delle guerre civili in corso nel mondo oggi hanno base religiosa. Il 46% dei gruppi terroristi del mondo hanno base religiosa. Mentre i morti negli attentati di terroristi politici sono mediamente 3-4 per singolo attentato, le vittime degli attentati di gruppi terroristi su base religiosa sono mediamente 17 per singolo attentato.
La netta e totale separazione fra religione e stato pare dunque essere la precondizione perché le religioni siano strumento di democrazia e di pace, e anche perché le religioni prosperino e godano del rispetto dei cittadini. Dove religione e stato sono legati, prospera invece la tirannide, la violenza, e la diffidenza dei cittadini verso la religione.
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