Paura, innovazione e guerra

18/10/2019

Liberamente tratto da un articolo di George Friedman per Geopolitical Futures

Per comprendere come potrà essere la guerra del futuro – che si combatterà nello spazio − è utile fare un parallelo con una guerra svoltasi sui mari tra Stati Uniti e Giappone, parte della Seconda guerra mondiale.

Quando videro le navi da guerra americane in azione nella Prima guerra mondiale, i Giapponesi compresero che il loro paese non poteva essere al sicuro senza una marina moderna e che per avere una marina moderna occorreva un’industria moderna. La paura li spinse all’azione immediata. Molto rapidamente il Giappone passò da un’economia basata sul lavoro manuale a un’economia basata sull’energia petrolchimica. L’evoluzione fu rapida e impressionante, ma rese il Giappone vulnerabile come mai prima di allora, perché aveva costantemente bisogno di grandi quantità di minerali e di petrolio, che non aveva. Le importazioni avvenivano via mare, dunque potenze straniere ostili avrebbero potuto colpire al cuore il Giappone semplicemente impedendogli l’accesso alle rotte marittime. Presa coscienza di questo potenziale pericolo, il Giappone pianificò i modi per prevenirlo e per difendersi. La marina giapponese, costruita dai Britannici, era stata pensata per la difesa del paese dalle invasioni, ora però si doveva estendere la difesa anche a protezione dei rifornimenti dei minerali che provenivano soprattutto dall’Indonesia e dal Sudest asiatico. Ciò comportò una serie di mosse espansive che le altre potenze considerarono offensive, ma che per il Giappone avevano natura essenzialmente difensiva. Le attività dei Giapponesi sui mari misero in allarme l’altra grande potenza del Pacifico: gli Stati Uniti.

I primi scontri avvennero per i punti di rifornimento, perché all’epoca le navi dovevano rifornirsi spesso, dato che un pieno di carbone garantiva l’autonomia solo per distanze limitate. Per gli Stati Uniti il punto di rifornimento chiave erano le Hawaii (oltre alle Filippine, Guam e altre isole minori), per il Giappone le piccole isole del Pacifico Occidentale di cui aveva preso il controllo dopo la Prima guerra mondiale. Nessuno dei due paesi poteva dirsi al sicuro se l’altro avesse voluto attaccare.

Alla ricerca di materie prime e di mercati di vendita, il Giappone attaccò la Cina. Gli USA percepirono questa mossa come una minaccia: se il Giappone avesse controllato la Cina avrebbe potuto costruire una flotta in grado di schiacciare quella americana. Gli USA cercarono di contrastare il Giappone impedendogli l’accesso al petrolio dell’Indonesia e ponendo l’embargo sull’acciaio e sul petrolio provenienti dagli Stati Uniti. Sapendo che il Giappone non poteva sopravvivere senza importazioni, gli USA pensarono di indurlo a venire a patti e ad accettare che fossero gli USA a controllare le rotte marittime. I Giapponesi ritennero invece che gli Americani volessero strangolare la loro economia. Sapevano però che attaccare gli USA sul mare avrebbe avuto esiti disastrosi. Piuttosto che ingaggiare una battaglia tra flotte, optarono per una guerra basata su scontri aeronavali. Entrambe le potenze disponevano di portaerei, ma le concepirono in modo diverso: gli USA come un supporto alla guerra di superficie, il Giappone come un’alternativa.

Fu la disperazione a indurre i Giapponesi a innovare: non innovarono sotto il profilo tecnologico, poiché le portaerei esistevano da tempo, ma innovarono nel cogliere il vantaggio che le portaerei potevano avere e nell’ideare una strategia basata su questo vantaggio. Il risultato fu Pearl Harbor, dove la flotta americana venne distrutta perché la marina aveva sottostimato le potenzialità delle portaerei. In seguito gli USA usarono le portaerei per bloccare quelle giapponesi nel Mar dei Coralli e alle Midway e presero il controllo di una serie di piccole isole per estendere le basi da cui poter esercitare il controllo dello spazio aereo. Le navi da guerra − che fino ad allora erano state considerate la chiave per il controllo dei mari − ebbero un ruolo marginale: il controllo dei mari non dipendeva più dalle navi di superficie, ma dal controllo dello spazio aereo.

L’esempio storico ci permette di notare che spesso viene fatta un’errata valutazione − per eccesso – dell’importanza di una tecnologia usata con successo in passato. I Giapponesi spesero moltissime risorse nella Yamato, la più grande nave da guerra del mondo, poiché credevano − nonostante vedessero tutte le potenzialità delle portaerei − che alla fine la guerra sarebbe stata vinta con scontri fra le navi da guerra; gli USA reagirono rapidamente dopo la tragedia di Pearl Harbor, ma si ostinarono a costruire altre navi per la guerra di superficie. Invece fu la forza aeronavale a cambiare le regole della guerra. Per la prima volta il controllo dei mari non dipendeva da navi di superficie, ma da sottomarini e da aerei da guerra che si alzavano in volo da una base. Non era la tecnologia a mancare, ma la piena comprensione di come la tecnologia poteva essere impiegata. Più una potenza è disperata, più coglie le possibilità che la tecnologia le offre. Lo stato che parte da una posizione di maggiore forza dal punto di vista militare tende abitualmente a pensare che la nuova tecnologia sia da impiegare in aggiunta a quella già esistente; si arriva a capire che la tecnologia esistente non ha più rilevanza soltanto in seguito a una sconfitta, quando si è in una posizione di debolezza.

Gli USA sembrano ora commettere lo stesso errore, considerando la guerra nello spazio e le relative tecnologie come un elemento aggiuntivo agli strumenti esistenti; comprendono l’importanza dello spazio ma non comprendono che ciò comporterà il decadimento di molti altri sistemi e strumenti, che si considerano intoccabili. Non basta creare nuove tecnologie, occorre elaborare nuovi concetti, principi e strategie belliche rese possibili da quelle nuove tecnologie. A vincere la guerra è la parte che ha non soltanto più risorse, ma anche la capacità di comprendere che la base della potenza militare del passato potrebbe ora diventare una forma di spreco e vedere come tecnologie che ora vengono considerate accessorie possono diventare d’importanza centrale. A comprendere queste cose è raramente il paese che si sente più forte e sicuro: l’innovazione in ambito bellico è guidata dalla disperazione e dalla paura.

 

Non basta creare nuove tecnologie, occorre elaborare nuovi concetti, principi e strategie belliche rese possibili da quelle nuove tecnologie.

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