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I dazi imposti da Trump su acciaio e alluminio e sui loro manufatti pongono un dilemma importante all’Europa, ma soprattutto alla Germania: con chi stare? Scegliere di aderire a un sistema economico globale che vede il ritorno al protezionismo e soprattutto al potere decisionale da parte dei singoli stati, o cercar di mantenere vivo il sistema formalmente in vigore dall’inizio di questo secolo, in cui tutti gli stati accettano il libero scambio di merci e servizi e l’applicazione delle regole viene sorvegliata da organismi tecnici sovranazionali come il WTO?
Il protezionismo in realtà non è mai finito. Paesi come la Cina hanno beneficiato della disponibilità dell’Occidente a chiudere un occhio per entrare nel mercato cinese a gamba tesa, anche se l’economia cinese non si conformava alle regole di base delle economie di mercato. E non c’è mai stata piena reciprocità di tariffe. Fino alla scorsa settimana, per esempio, gli USA applicavano un dazio inferiore al 5% sulle auto importate dall’Europa, mentre l’Europa applicava oltre il 10% sulle auto importate dagli USA. Le importazioni dalla Cina hanno goduto di 15 anni di dazi minimi, mentre le esportazioni della maggior parte dei prodotti e servizi occidentali in Cina sono state contingentate o ostacolate da dazi molto più alti.
La piena reciprocità di trattamento e l’applicazione di regole comuni sono stati visti dall’opinione pubblica come fatti reali, ma non lo sono mai stati. I singoli paesi o i singoli blocchi di paesi, come l’Unione Europea, si sono comportati a seconda della loro convenienza economica e politica, pur nella comune aspirazione a rendere prima o poi il campo livellato e le regole di gioco comuni. In questa situazione alcuni paesi hanno avuto molto da guadagnare, altri molto da perdere. Ora ogni paese o blocco di paesi è costretto a fare e rifare conti e valutazioni e previsioni per capire che fare, visto che gli USA di Trump hanno bloccato il sistema in vigore, rifiutando di continuare a farne parte. Le discussioni portate all’attenzione dell’opinione pubblica sono quotidiane, ma per lo più gli esempi sono selezionati apposta per dimostrare la teoria che ogni partito abbraccia. Nessuno sa davvero che conseguenze avrà la cosiddetta ‘guerra dei dazi’ sulle economie dei singoli stati, perché le interconnessioni dell’economia e della finanza globale sono molto complesse.
La motivazione di Trump è di natura geostrategica: la Cina è il grande rivale futuro dell’America in ogni campo e negli ultimi 20 anni ha avuto lo sviluppo economico e tecnologico più impetuoso nella storia del mondo, grazie all’apertura dei mercati occidentali e all’accesso al know how più avanzato. Ora basta, sostiene Trump, perché l’America d’ora in poi avrà soltanto da rimetterci e perché la Cina gioca sporco: ha fatto una politica di prezzi talmente bassi sull’acciaio da far chiudere quasi tutti i concorrenti all’estero, inoltre ha rubato e continua a rubare brevetti tecnologici, ricattando le multinazionali che operano in Cina. Così ora è in grado di battere anche gli USA, perché ha la stessa capacità tecnologica più due vantaggi: costo molto inferiore del lavoro e prezzi politici per le materie prime, non di mercato.
Per noi Europei è ora necessario capire che conseguenza questo avrà sull’economia tedesca, perché la politica commerciale europea è stata − e ancora sarà − determinata soprattutto dalle esigenze della Germania.
L’economia tedesca dipende dalle esportazioni, che nel 2016 hanno costituito il 46% del suo PIL. Più di metà di queste esportazioni vanno verso altri paesi europei, perciò la Germania ha bisogno di mantenere stabile l’eurozona e la libera circolazione in tutta l’Unione Europea. Il secondo mercato per la Germania sono gli USA e il terzo – a poca distanza − è la Cina. La Germania importa dalla Cina più di quanto esporta, ma importa manufatti che richiedono molta manodopera e poca tecnologia (l’abbigliamento, ad esempio), che perciò non vorrebbe dover produrre in casa, avendo una manodopera scarsa ma molto produttiva e con stipendi molto alti, in un modello di sviluppo basato su industrie ad alta tecnologia e ad alta intensità di investimenti.
La Germania esporta prodotti ad alta tecnologia o costruisce impianti ad alta tecnologia in Cina. Oltre metà degli investimenti tedeschi all’estero hanno come destinazione la Cina. Una grande banca tedesca ha costituito non lontano da Shanghai il TaiCang German Center, che ha il sostegno e la collaborazione del governo tedesco. Anche gli investimenti cinesi in Germania sono in rapida crescita e si concentrano sui settori di alta specializzazione quali le apparecchiature biomediche, la robotica, le aziende aerospaziali. Questo ha già creato allarme in Europa, per cui la Commissione Europea sta valutando i rischi e studiando misure per proteggere le industrie d’importanza strategica da investimenti esterni all’Europa, che possano condurre al furto di brevetti chiave.
Le esportazione della Germania in USA riguardano gli stessi tipi di prodotti: macchinari, mezzi di trasporto, robotica, alta tecnologia in tutti i settori avanzati. Aumentare le esportazioni verso la Cina se diminuiscono quelle verso gli USA non richiederebbe un processo di riconversione industriale per la Germania. Sarebbe molto più complicato e più lento dal punto di vista burocratico perché la burocrazia cinese è soffocante. Probabilmente richiederebbe l’accettazione di qualche ricatto in più nella concessione dell’uso dei brevetti.
Per la Cina il discorso è più complicato, perché la Cina ha bisogno di continuare a essere la fabbrica del mondo per abbigliamento, scarpe, giocattoli e altri manufatti a basso contenuto tecnologico, altrimenti si ritrova con centina di milioni di disoccupati. Gli USA hanno 320 milioni di consumatori, la Germania soltanto 82 milioni e non può certo assorbire le produzioni cinesi attualmente destinate agli USA. La Cina può ricorrere alla Germania per sostituire l’import di high tech dagli USA, ma non può rinunciare ai consumatori americani.
Dal 2012 la Cina investe anche in altri paesi europei, per i quali ha attivato il progetto 16+1, che vuole contratti e rapporti diretti con ogni singolo stato, senza passare attraverso Bruxelles, e concentra l’attenzione sulla costruzione di infrastrutture. Si tratta di cifre non di grandissimo rilevo, ma sufficienti a guadagnarle simpatie politicamente utili. La Grecia per esempio ha ceduto il porto del Pireo a società cinesi che ne hanno fatto un centro logistico importante, contribuendo a salvare l’economia greca dalla lunga recessione iniziata nel 2008. Quando l’ONU invitò a votare contro le violazioni dei diritti umani in Cina, la Grecia si oppose.
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