Tratto da una serie di articoli di Scott Stewart per Strategic Forecasting
1. Gli obiettivi dei jihadisti
I jihadisti non sono dei pazzi, seguaci della “violenza per la violenza”. Benché all’interno dei movimenti jihadisti esistano personalità psicotiche e sociopatiche, considerati nell’insieme i jihadisti si servono della violenza in modo razionale, per raggiungere i loro obiettivi.
Bisogna ricordare che il terrorismo non è prerogativa di un singolo gruppo né di una sola ideologia, ma una tattica usata da svariati attori. Il terrorismo non è associato a nessun credo, gruppo etnico o orientamento politico particolare. I jihadisti si servono del terrorismo così come delle insurrezioni – entrambi strumenti per raggiungere i propri obiettivi. Si può affermare che gli obiettivi perseguiti dai jihadisti siano deliranti, e ci si può chiedere se la violenza sia un mezzo efficace per raggiungerli, ma il fatto che i jihadisti si servano della violenza in modo consapevole e razionale è fuori discussione..
I jihadisti sono spinti da una motivazione teologica. Nel loro credo non esiste distinzione tra religione, politica e cultura: influenzare il governo, il sistema legale e le norme culturali con la loro visione dell’islam è per loro un dovere religioso. Ritengono inoltre che per diffondere il loro credo in modo adeguato debbano seguire alla lettera gli esempi del profeta Maometto e dei suoi seguaci della prima ora; non tollerano idee extra-religiose e limitano drasticamente l’uso della ragione per l’interpretazione dei testi sacri.
La storia racconta che, dopo aver lasciato La Mecca, Maometto si trasferì a Medina, dove fondò il primo sistema di governo islamico. L’esercito islamico conquistò la Mecca e gran parte della Penisola Araba prima della morte di Maometto. Nell’arco di un secolo i suoi seguaci controllavano un impero che andava dalla Spagna meridionale fino ai confini di India e Cina, attraverso il Nord Africa. I jihadisti vogliono riconquistare ed espandere questo impero, fino ad arrivare al controllo dell’intero pianeta.
Il piano jihadista prevede in primo luogo l’istituzione di un emirato fondato sulla shari’a. L’emirato deve poi essere usato come base per altre conquiste, al fine di creare un impero, definito califfato: un’entità transnazionale che racchiuda tutte le terre musulmane dalla Spagna meridionale alle Filippine. Il passo successivo comporterebbe l’espansione di questo califfato all’intero pianeta.
Il movimento jihadista racchiude al suo interno varie sfumature ideologiche – anche a livello degli obiettivi da perseguire. Alcuni jihadisti hanno visione nazionalista e non transnazionale: vogliono rovesciare i regimi nei loro paesi per stabilirvi emirati fondati sulla shari’a, ma non sono particolarmente interessati a trasformare quegli emirati in basi di lancio per il ristabilimento di un califfato transnazionale. Alcuni jihadisti ritengono che queste differenze ideologiche rendano impossibile l’istituzione del califfato, e che conviene perciò puntare alla fondazione di piccoli ma numerosi stati fondati sulla shari’a.
Gli ideologi e leader jihadisti dichiarano pubblicamente quali sono i loro obiettivi e le loro strategie. Non si tratta soltanto di strumenti retorici per fomentare le masse.
2. Scritti e azioni dei jihadisti
Una delle analisi più complete della strategia di alQaeda si trova in una lettera scritta dall’allora vice – e attuale emiro (comandante) – dell’organizzazione, Ayman al-Zawahiri, ad Abu Musab al-Zarqawi, in possesso del governo americano dal 2005. Al-Zarqawi era allora il leader di al-Tawhid wal-Jihad, un gruppo jihadista attivo in Iraq, che cambiò nome legandosi ad altri gruppi, diventando prima alQaeda in Iraq, poi lo Stato Islamico dell’Iraq, infine lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, per includere la Siria.
Al-Zawahiri scrive: “Ho sempre ritenuto che l’Islam non vincerà fino a quando non sarà stabilito uno stato islamico secondo i dettami del Profeta nel cuore del mondo musulmano”. Secondo Al-Zawahiri questo obiettivo si sarebbe raggiunto in quattro fasi: primo, cacciare gli Americani dall’Iraq; secondo, fondare in Iraq un emirato e in seguito un califfato; terzo, attaccare gli stati confinanti con l’Iraq (Arabia Saudita, Kuwait, Siria e Giordania) per inglobarli nel califfato; quarto, attaccare Israele. La strategia delineata da al-Zawahiri è stata effettivamente seguita dai jihadisti iracheni. Il nome che hanno scelto, Stato islamico dell’Iraq e del Levante, riflette il loro obiettivo. La guerra civile in Siria ha permesso allo Stato islamico dell’Iraq di insinuarsi nel territorio siriano e di impegnarsi concretamente per conquistarlo, controllarlo e governarlo. L’obbiettivo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante è rappresentato nella cartina accanto al titolo.
Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante non è l’unico gruppo jihadista che ha tentato di applicare la strategia di al-Zawahiri. AlQaeda nella Penisola Araba, o AQAP, si è battuto per conquistare e governare la parte meridionale dello Yemen dopo la rivoluzione del 2011, ed è riuscito nel suo intento per un breve periodo. Al Shabaab ha conquistato − e governa da alcuni anni − parti della Somalia, anche se recentemente ha perso terreno. Nel 2012 alQaeda nel Maghreb islamico (AQIM) ha fondato un emirato in Mali – che ha avuto vita breve – mentre il gruppo jihadista nigeriano Boko Haram ha tentato di conquistare la parte settentrionale della Nigeria. Altri gruppi jihadisti, come Ansar al-Shariah, cercano di controllare parti della Libia, sprofondata nel caos.
L’istituzione di un emirato figurava anche tra gli obiettivi elencati in due lettere scovate da Associated Press a Timbuktu, nel Mali. Erano state scritte da Nasir al-Wahayshi, leader di alQaeda nella Penisola Araba, e indirizzate ad Abdelmalek Droukdel (noto anche come Abu Musab Abd al-Wadoud), leader di alQaeda nel Maghreb Islamico. Al-Wahayshi spiega a Droukel che nel tentare di stabilire un emirato nello Yemen – che non riuscì mai a costituire – furono commessi alcuni errori. Il leader di AQAP scrive: “Appena abbiamo preso il controllo dei territori, i nostri superiori ci hanno consigliato di non dichiarare l’istituzione di uno stato islamico, per una serie di motivi: non saremmo stati in grado di soddisfare tutti i bisogni di quegli uomini, e quindi di trattarli da cittadini, perché il nostro stato era debole. Avevamo paura di non farcela, se avessimo subito un attacco dall’esterno. Ciò non avrebbe giovato all’immagine della nostra lotta, perché quegli uomini disperati avrebbero percepito il jihad come inutile e nocivo.”
Nasir al-Wahayshi voleva che AQIM imparasse dall’esperienza nello Yemen per avere successo in Mali, ma le sue osservazioni furono evidentemente sottovalutate. Nell’aprile 2012 i jihadisti proclamarono lo Stato Islamico di Azawad nel nord del Mali, ma furono sconfitti e allontanati dai Francesi poco dopo. Nelle lettere ritrovate in Mali si legge che effettivamente Droukdel aveva suggerito ai suoi superiori di evitare comportamenti fondamentalisti ed eccessivamente brutali in Mali, per non gettare cattiva luce sui loro obiettivi. Recentemente al-Zawahiri ha criticato gli errori che hanno decretato la sconfitta di AQIM in Mali.
Questi esempi dimostrano che l’istituzione di un emirato come base per conquiste successive rappresenta ancora il nucleo della strategia jihadista, anche se i leader stanno diventando tatticamente più cauti.
3. L’insurrezione come strumento per raggiungere il potere
Le insurrezioni, talvolta chiamate guerriglie o conflitti irregolari, sono esplose più volte nel corso dei secoli, in regioni diverse, per mano di attori appartenenti a varie culture. Nel XX secolo Lenin, Mao, Giap e Guevara hanno contribuito a codificare la teoria insurrezionalista. In generale la teoria suggerisce di rinunciare alla battaglia quando le forze nemiche sono nettamente superiori e attaccare nel luogo e nel momento in cui gli insorti hanno accumulato abbastanza forza per colpire il nemico nel suo punto debole. Gli insorti ragionano sul lungo termine e ritengono che sopravvivere e combattere un giorno in più sia preferibile al rimanere immobili ed essere distrutti dai nemici. Mettono in conto il fatto di perdere alcune battaglie, ma considerano una vittoria il riuscire a causare perdite nelle fila nemiche, costringendo l’avversario a impegnare una quantità spropositata di uomini e risorse. Gli insorti hanno il tempo dalla loro in queste lotte asimmetriche, e puntano a sfinire e demoralizzare il nemico tirando il conflitto per le lunghe.
La teoria insurrezionalista insegna che è essenziale la presenza di un leader che organizza un esercito al fine di portare avanti campagne militari sempre più consistenti e logorare il potenziale offensivo dei nemici. Partendo da attacchi su scala ridotta (talvolta servendosi di metodi terroristici) si passa al conflitto convenzionale, puntando a pareggiare e infine superare le forze nemiche, per conquistare e mantenere il controllo del territorio.
Nel caso di un'insurrezione contro occupanti stranieri, non è sempre necessario seguire questi passaggi e arrivare a pareggiare le loro forze. Gli insorti locali conoscono meglio il luogo e sono motivati da interessi profondi. L'interesse che l'occupante straniero ha nei confronti di un fazzoletto di terra che per i locali è casa, è molto limitato rispetto all’impegno degli insorti. Se gli insorti resistono abbastanza a lungo e provocano abbastanza vittime e perdite materiali tra le fila nemiche, spesso l'occupante si ritira, anche se le vittime tra gli insorti sono molte di più.
Un esempio storico di insurrezione di grande successo è quella del Profeta Maometto, preso a modello dai jihadisti per le loro campagne militari. Maometto e i suoi seguaci partirono da attacchi alle carovane per passare al conflitto irregolare, alla presa della Mecca e infine alla fondazione di un vasto impero conquistato tramite forze militari convenzionali. Sulla base della teoria insurrezionalista e dell'esempio di Maometto, possiamo analizzare i vari gruppi jihadisti, valutare il loro stato attuale, e soprattutto le loro mosse future. Dobbiamo capire quale gradino del processo insurrezionale hanno raggiunto. Il gruppo ha già superato la fase degli attacchi su scala ridotta ed è già passato al conflitto irregolare? O viceversa, è regredito? Ha già conquistato il controllo di un territorio e lo mantiene? O, viceversa, l'ha perso?
4. Il terrorismo come strumento per scatenare l’insurrezione
Il terrorismo tende a essere uno strumento dei deboli. Spesso è usato per alimentare un conflitto armato contro un nemico militarmente più forte, quando l'organizzazione che scatena la lotta non ha ancora raggiunto una fase in cui sia possibile optare per un conflitto convenzionale. Il terrorismo si presenta come la prima fase di una lotta armata, volta a focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle regioni degli insorti, nella convinzione di aumentare così gli aderenti all’insurrezione. AlQaeda si è servita del terrorismo per plasmare l'opinione pubblica e far avvicinare la popolazione alla causa.
Il terrorismo può anche essere un complemento dell'insurrezione o del conflitto convenzionale se è usato per confondere o distrarre il nemico, principalmente attaccando obiettivi strategici nelle retrovie nemiche. Quest'ultima è la strategia seguita dai Talebani afghani. Per prevenire attacchi contro obiettivi non militari lo stato deve dispiegare una quantità sproporzionata di risorse e uomini, che è però assolutamente necessaria per evitare che i civili sprofondino nel terrore. Se le forze di sicurezza dello stato sono deboli e disorganizzate e non riescono a infiltrare e colpire i gruppi terroristici, questi riescono a formare una gerarchia di comando, e quindi si rafforzano, mentre lo stato si indebolisce.
Per contrastare le operazioni di intelligence dello stato i gruppi terroristici possono abbandonare la struttura gerarchica e preferire una struttura a cellule che lavorano in modo indipendente, ma sotto il coordinamento di un leader lontano. Anche le organizzazioni con struttura a cellule sono però vulnerabili a infiltrazioni da parte delle forze di sicurezza. Per questo alcuni teorici del terrorismo hanno proposto un modello operazionale definito resistenza senza leader, che prevede cellule indipendenti e attacchi individuali svincolati dalle disposizioni di un comando centrale.
Il concetto di resistenza senza leader, basata su attacchi operati da ‘lupi solitari’ o ‘sacerdoti di Phineas’, è stato teorizzato da una serie di leader di gruppuscoli neonazisti e del Klu Klux Klan che in USA vogliono la supremazia bianca, dopo il processo per la sedizione di Fort Smith nel 1988. La resistenza senza leader è il sistema organizzativo che si adotta se si è in condizioni di debolezza di fronte alla forze di sicurezza del nemico.
AlQaeda nella Penisola Araba e il gruppo jihadista affiliato ad alQaeda in Yemen hanno aderito alla proposta di resistenza terroristica senza leader nel 2009. AlQaeda nella Penisola Araba ha pubblicizzato questa strategia tramite i suoi media in arabo e la rivista Inspire, in inglese. Nel 2010 il portavoce di alQaeda Adam Gadahn, di origini americane, ha esortato i musulmani ad adottare il modello di resistenza terroristica senza leader. È il riconoscimento del fatto che la loro abilità di attaccare l'Occidente è oggi estremamente limitata dai servizi di sicurezza.
5. I fallimenti di alQaeda
Se si considera l'operato del nucleo centrale di alQaeda alla luce dell'obiettivo jihadista – l'istituzione di un emirato ed infine di un califfato – alQaeda ha chiaramente fallito. L'11 settembre ha causato l'invasione americana dell'Afghanistan e il rovesciamento dell'unico emirato jihadista esistente. Invece di avanzare verso i propri obiettivi, alQaeda è regredita. La leadership del nucleo centrale di alQaeda ha anche un altro obbiettivo: essere l’avanguardia che trascina all’insurrezione tutto il mondo musulmano. Molti gruppi e individui hanno risposto all'appello di alQaeda, però non si è verificata l'insurrezione globale. Molti dei gruppi affiliati ad alQaeda sono organizzazioni islamiche o jihadiste che esistevano in precedenza e che hanno poi inserito alQaeda nel proprio nome. Il vecchio Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, per esempio, si è rinominato alQaeda nel Maghreb Islamico nel settembre del 2006.
I militanti jihadisti non sono riusciti a rovesciare i regimi esistenti nel mondo musulmano. Alcuni gruppi sono stati coinvolti nelle Primavere Arabe, dalla Tunisia alla Siria, ma non sono mai stati gli iniziatori delle ribellioni. Dove le ribellioni fatte da altri hanno annientato l'autorità statale – in Siria e in Libia, in Yemen dopo la guerra civile, in Mali dopo il colpo di stato, nel caos della Somalia – i jihadisti hanno approfittato della situazione, ma non sono stati i motori dell’insurrezione. Il disordine e l'anarchia hanno permesso loro di prosperare dopo che i regimi erano stati abbattuti. I jihadisti cercano di ripetere i successi dei Talebani nell'Afghanistan sprofondato nel caos dopo il ritiro delle truppe sovietiche. Ma anche in polveriere come Yemen, Mali del nord e Somalia, i jihadisti non sono riusciti a mantenere il controllo del territorio e istituire un emirato. L’Occidente ha impiegato ingenti risorse per impedire l’istituzione di uno stato islamico da parte dei jihadisti in questi posti.
Per quanto riguarda le operazioni terroristiche, dopo l'attentato alle Torri Gemelle del 1993 e gli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998, la rete non è più stata in grado di inviare elementi catalizzatori, con una solida formazione politica alle spalle, per formare cellule locali, e dopo gli attacchi dell'11 settembre non ha più avuto a disposizione gruppi professionali e competenti. Il nucleo centrale di alQaeda è regredito al punto di occuparsi soltanto di predicazione ideologica, mentre i gruppi affiliati portano avanti la lotta sul campo.
I gruppi affiliati sono riusciti a creare strutture gerarchiche locali, ma non hanno nessuna influenza al di fuori delle loro aree. Non conducono attacchi transnazionali. Al Qaeda nel Maghreb Islamico all'inizio aveva obiettivi simili a quelli del nucleo centrale di alQaeda, ma i ripetuti attacchi suicidi in Algeria hanno provocato l'allontanamento degli elementi nazionalisti dall'organizzazione, indebolendola.
AlQaeda nella Penisola Araba ha cercato di portare avanti sia attacchi regionali, come il tentato omicidio del Principe Mohammed bin Nayef, sia attacchi transnazionali, come l'attacco sventato di Natale 2009, quando un attentatore nigeriano si imbarcò su un volo di linea diretto negli USA con un ordigno nascosto addosso. In entrambi i casi l'organizzazione fu costretta a inviare gli attentatori direttamente dalla propria base operativa nello Yemen, senza previa osservazione degli obbiettivi, perché l’attività dei servizi di intelligence e delle forze di sicurezza ostacola sia gli spostamenti sia i sistemi di formazione, comunicazione, raccolta fondi.
Sono passati più di tre anni da quando un gruppo affiliato ad alQaeda ha tentato l’ultimo attacco in Occidente, fallendo. Risalgono all'ottobre 2010 i pacchi bomba intercettati a Dubai e diretti negli Stati Uniti; nel maggio 2010 era stato sventato un attentato a Times Square rivendicato dai Talebani del Pakistan.
Benché fortemente danneggiata, alQaeda è ancora in vita, così come l'ideologia violenta che promuove. Ora dovrà vedersela con le altre forze attive nel mondo musulmano, che durante le primavere arabe hanno dimostrato di saper organizzare insurrezioni capaci di rovesciare regimi dittatoriali, senza ricorrere alla violenza terrorista. Il jihadismo non è più l'unica risposta all'oppressione agli occhi dei musulmani: ne esistono altre, probabilmente più efficaci. Anche alcuni leader religiosi musulmani hanno mosso critiche all’ideologia di alQaeda. Quest’evoluzione potrebbe danneggiare ulteriormente al Qaeda.
6. Gli USA alla ricerca di jihadisti nazionalisti
A novembre-dicembre 2013 si sono infittiti gli incontri ad Ankara fra inviati americani e rappresentanti delle fazioni che combattono in Siria, alla ricerca di interlocutori con cui sia possibile stringere accordi per sostituire il regime di Assad, senza fare il gioco di alQaeda o di altri gruppi transnazionali. La ricerca di interlocutori si è accentrata sui gruppi salafiti e sui Fratelli Musulmani, che però in Siria hanno una presenza trascurabile. Inizialmente gli USA avevano dato il loro sostegno all’Esercito Siriano Libero, sospendendolo però di fronte al rafforzarsi delle milizie jihadiste sunnite.
Gli USA vogliono mantenere un equilibrio di potere in Medio Oriente fra sunniti e sciiti, non vogliono privilegiare i sunniti e correre il rischio di lasciare la Siria – o l’Iraq − in mano alle milizie estremiste sunnite, come successe in Afghanistan con i Talebani alla fine della guerra contro i Sovietici. Per questo gli USA cercano di trattare sia con Teheran, che è il centro del potere sciita, sia con gruppi sunniti siriani, purché non intendano creare un emirato come base per promuovere un nuovo Califfato.
7. I principali gruppi jihadisti, oggi
- Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP) (mappa a lato)
Agisce dallo Yemen. Lì si è verificato il primo attacco jihadista ai danni degli USA, nel dicembre 1992, e lì è avvenuta la prima operazione con droni Predator ai danni dei jihadisti nel novembre 2002. La formazione di alQaeda nella Penisola Araba è stata annunciata nel gennaio 2009 da un video pubblicato su Internet. Il gruppo è composto da militanti yemeniti e da quel che rimaneva della cellula saudita di alQaeda, decimata e costretta a fuggire in Yemen. AQAP pubblica una rivista online in arabo − Sada al-Malahim – e una rivista in inglese − Inspire – molto influenti sul piano ideologico. Molti esponenti di spicco del movimento sono evasi nel 2006 dal carcere di massima sicurezza di Sanaa, dove erano detenuti. Il gruppo ha approfittato della guerra civile del 2011 per conquistare buona parte del sud dello Yemen. L'esercito yemenita e gli Americani hanno risposto con una pesante controffensiva nel 2012, costringendo i jihadisti a ritirarsi nell'entroterra.
AQAP organizza incursioni ai danni dell'esercito yemenita e delle infrastrutture elettriche e ricorre al rapimento di stranieri per finanziare le proprie operazioni. Negli ultimi 18 mesi il movimento ha subito numerosi attacchi da parte dell'esercito yemenita e dei droni americani. Pare che le menti del gruppo non siano state eliminate, quindi il gruppo potrebbe ancora essere in grado di organizzare attacchi transnazionali.
- Lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante
Agisce dall’Iraq, dove i jihadisti hanno registrato molti successi dopo l'invasione americana del 2003. Nel 2004 uno dei gruppi più forti – Jamaat al-Tawhid wal Jihad, guidato da Abu Musab al-Zarqawi – si è affiliato ad alQaeda, prendendo il nome di alQaeda nella Terra dei Due Fiumi. Nel 2006 questo è diventato il nucleo di una coalizione di gruppi jihadisti, che si son dati come nome Stato Islamico dell'Iraq, affiliato ad alQaeda e guidato da una leadership irachena.
L'operato dello Stato Islamico dell'Iraq è stato ostacolato dal Movimento del Risveglio (Awakewing) e dalle operazioni militari americane. Nato come coalizione di sceicchi tribali della provincia di Anbar al fine di garantire la sicurezza della regione, il Movimento del Risveglio è diventato un vero e proprio esercito attivo in tutto il paese, soprattutto nel 2006-2007. Nello stesso periodo si sono anche intensificate le operazioni militari americane, che hanno decapitato la leadership dello Stato Islamico dell'Iraq. L'organizzazione ne è uscita fortemente danneggiata, ma dopo il ritiro delle truppe americane è riuscita a ridiventare uno dei gruppi jihadisti più potenti del mondo. La guerra civile in Siria ha favorito il suo rafforzamento. L'organizzazione ha dapprima aiutato i gruppi jihadisti siriani, come Jabhat al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda, per poi partecipare direttamente al conflitto. Dopo il coinvolgimento in Siria, l'organizzazione si è rinominata Stato Islamico dell'Iraq e del Levante. In Siria il gruppo combatte sia contro il regime di Assad sia contro i Curdi siriani del nord del paese; controlla numerose città e infrastrutture petrolifere. Ha cercato di inglobare altri gruppi jihadisti siriani, come Jabhat al-Nusra, ma Abu Mohammad al-Golani, leader di quest'ultima, si è rivolto ad al-Zawahiri, leader di alQaeda, affinché intimasse allo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante di lasciare la Siria a Jabhat al-Nusra. Ma il leader dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, Abu Bakr al-Baghdadi, ha ignorato l'ordine di al-Zawahiri: ciò dimostra non solo la forza del gruppo iracheno, ma anche la debolezza del nucleo centrale di alQaeda.
Oltre alle operazioni in Siria, lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante continua a organizzare attentati in Iraq. Può contare su terroristi capaci di attacchi contro obiettivi multipli e molto preparati nella fabbricazione di bombe. Se si considerano la capacità terroristica, gli uomini a disposizione, i territori controllati e i guadagni derivanti dalla vendita del petrolio, si può affermare che lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante è divenuto molto potente. Se non sarà fermato, sarà presto capace di istituire un emirato.
- Al Qaeda nel Maghreb Islamico (mappa a lato)
Agisce dall’Algeria. Negli ultimi anni le forze di sicurezza algerine hanno braccato i militanti nascosti nelle montagne del nord, trascurando le unità attive nel sud. La leadership del gruppo ha quindi concentrato sforzi e capitali nella parte meridionale del paese. Le unità attive del sud dell’Algeria agiscono in tutto il Sahel, dove rapiscono occidentali per riscatto, sono coinvolte in attività di contrabbando e talvolta organizzano attentati.
Nel 2012 AlQaeda nel Maghreb Islamico ha anche approfittato del caos nel Mali del nord. Collaborando con qualche alleato, come il Movimento per l'Unità e il Jihad, ha conquistato numerose città e istituito un emirato. Tuttavia il gruppo è stato indebolito da divisioni interne e lotte di potere. Nell'ottobre 2012 una delle unità attive nel sud, diretta da Mokhtar Belmokhtar, si è scissa da AlQaeda nel Maghreb Islamico per diventare indipendente. L'invasione francese nel nord del Mali del gennaio 2013 ha rapidamente smantellato l'emirato e ha provocato perdite di uomini e armi tra le fila jihadiste.
AlQaeda nel Maghreb Islamico, il Movimento per l'Unità e il Jihad e il gruppo di Belmokhtar organizzano ancora sequestri di persona e attacchi contro i civili in tutto il Sahel. Ne è esempio la crisi del gennaio 2013, quando una brigata comandata da Belmokhtar sequestrò e tenne in ostaggio oltre 800 persone nell'impianto di estrazione del gas di Tigantourine, vicino ad Ain Amenas, in Algeria. Molti esponenti di spicco del movimento morirono a Tigantourine. Ci vorrà tempo prima che l'organizzazione si riprenda.
Altri gruppi jihadisti attivi in nord Africa, come Ansar al-Shariah in Tunisia e Ansar al-Shariah in Libia, sono in contatto con alQaeda nel Maghreb Islamico, ma non si sa quanto i rapporti siano stretti. Le organizzazioni attive in Tunisia e in Libia sono legate alle strutture militanti locali e nazionali dei rispettivi paesi, e cercano di approfittare del caos post-Primavere Arabe nel quale entrambi i paesi sono sprofondati. Hanno un atteggiamento più nazionalistico rispetto ad alQaeda nel Maghreb Islamico, che punta invece alla creazione di un emirato transnazionale in Nord Africa. Ansar al-Shariah in Libia e quella in Tunisia hanno dimostrato di saper organizzare attacchi, uccidere, fabbricare bombe, ma non hanno ancora una capacità terroristica diffusa, né obbiettivi al di fuori delle aree in cui sono attive.
- Boko Haram
Agisce in Nigeria. È cresciuto nel 2011, quando è passato da scorribande su piccola scala nei villaggi alle autobombe ad Abuja. L'esercito nigeriano ha ostacolato l'attività di Boko Haram e di un altro gruppo jihadista, Ansaru, riducendone il potenziale. L'esercito ha sottratto al controllo di Boko Haram parte dei territori nel nord del paese, ma non è stato in grado di impedire che il gruppo attaccasse il nord est. Boko Haram non ha dimostrato interesse per attacchi transnazionali, per i quali probabilmente non avrebbe neppure le risorse.
- Al Shabaab
Agisce in Somalia. È responsabile dell'attentato al Westgate Mall di Nairobi dello scorso settembre e delle esplosioni di Addis Abeba a ottobre. Il gruppo ha però subito un duro colpo negli ultimi 18 mesi, perché le truppe dell'Unione Africana hanno riconquistato alcune delle roccaforti di Al Shabaab, come il porto di Kismayo e gran parte della capitale, Mogadiscio. Il gruppo è anche stato indebolito da tensioni interne: sembra che il capo di al Shabaab, Ahmad Abdi Godane (anche noto come Abu Zubayr), abbia ucciso o sconfitto molti di coloro che si opponevano alla sua leadership. Al Shabaab ha dimostrato di poter compiere attacchi complessi in Somalia, usando sia tattiche insurrezionali che metodi terroristici, come kamikaze e autobombe. Attualmente sta cercando di riconquistare i villaggi lungo le strade che collegano Mogadiscio all’Etiopia). Godane è più transnazionalista rispetto ad altri leader di al Shabaab, che tendono a concentrarsi prevalentemente sulla Somalia. Tuttavia, indipendentemente dalla volontà del suo leader, pare che il gruppo non abbia le risorse necessarie per compiere attacchi transnazionali. Perciò il gruppo continua ad essere un pericolo serio soltanto a livello regionale.
- I Talebani
Fin dall'invasione americana del 2001 i Talebani afghani hanno optato per una campagna insurrezionalista tradizionale, di lungo termine. Resta da vedere se il gruppo riuscirà a riguadagnare potere in tutto l’Afghanistan, o almeno nelle aree pashtun, dopo il ritiro degli Americani, dal momento che non è mai riuscito a controllare l'intero paese. Al momento dell'invasione americana, i Talebani erano già in conflitto aperto con l'Alleanza del Nord.
I Talebani afghani sono un'organizzazione jihadista nazionalista che non ha mai espresso l'intenzione di compiere attacchi terroristici transnazionali. Anche se alcuni esponenti della Shura di Quetta e del network di Haqqani hanno dimostrato di possedere capacità terroristiche avanzate, non hanno mai organizzato attentati al di fuori di Pakistan e Afghanistan. Il governo del Pakistan sostiene ancora i Talebani, che dopo il ritiro degli Americani potrebbero rafforzarsi molto.
I Talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan, indipendenti dai Talebani afghani) hanno dichiarato guerra al governo e ai musulmani non sunniti del Pakistan. Furono loro a formare e finanziare Faisal Shahzad, il terrorista responsabile dell'attentato sventato a Times Square nel maggio del 2010. Da allora il gruppo non è più stato coinvolto in attacchi transnazionali, ma è ancora in grado di formare e mobilitare terroristi.
- Jihadisti fai-da-te
Da anni gli ideologi jihadisti sollecitano i simpatizzanti ad attacchi personali, fatti in casa, in occidente. Molti di coloro che hanno provato volevano organizzare attacchi sproporzionati, spettacolari, fuori dalla loro portata; hanno quindi chiesto rinforzi per creare un’organizzazione, e ciò ha portato al loro arresto. Invece l'attentato alla Maratona di Boston dell'aprile 2013 ha dimostrato che un attacco semplice, con bombe rudimentali fatte in casa, può essere molto efficace, può uccidere e generare un periodo di terrore prolungato. È possibile che il successo dell'attentato alla Maratona di Boston stimoli l’imitazione. I risultati potrebbero essere letali. Le forze di sicurezza e i servizi segreti sarebbero messi in difficoltà. Le iniziative terroristiche personali non sono un pericolo grave, ma rappresentano un pericolo amorfo e diffuso, che potrebbe intensificarsi.
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