Il Pakistan non è un paese da cui ci si aspetti grandi progressi verso la democrazia. È il quartier generale del jihadismo qaedista internazionale e ha sperimentato sulla propria pelle una sollevazione islamista di grandi proporzioni. Negli scorsi dieci anni il Pakistan è stato teatro di migliaia di attentati nei quali sono morte almeno 40.000 persone, compresa la leader del principale partito politico ed ex primo ministro Benazir Bhutto. L’economia del Paese è allo sfascio e la situazione è resa peggiore dal collasso delle infrastrutture energetiche. Di fatto l’estremismo e il fondamentalismo religiosi sono cresciuti costantemente, dal 1980 ad oggi. Ma, soprattutto, il Pakistan è stato governato dai servizi segreti per gran parte della sua storia.
Ciò nonostante per la prima volta dall’indipendenza il 17 marzo un governo eletto ha completato il suo mandato quinquennale. A maggio si terranno regolari elezioni.
Il paradosso della democrazia pakistana
Com’è possibile che il Pakistan si democratizzi mentre affronta difficoltà senza precedenti? Anche se il Paese è stato a lungo governato da autocrati militari, è il risultato di un processo costituzionale che ha portato alla partizione dell’India britannica nel 194. La costituzione pakistana del 1973 è resiliente ed è sopravvissuta a due lunghi periodi di regime militare: i regimi di Muhammad Zia ul-Haq (1977-88) e di Pervez Musharraf (1999-2008). Ma soprattutto è evidente che per la prima volta i due principali partiti – il Partito del Popolo Pakistano e la Lega Islamica del Pakistan Nawaz – hanno guardato oltre le reciproche differenze e hanno smesso di collaborare con i militari per abbattere il governo dell’avversario.
La capacità dei militari di imporre il proprio governo al Paese si è ridotta, soprattutto per il comportamento di Musharraf, l’ultimo governatore militare. Con Musharraf il Pakistan ha visto la grande crescita della società civile, la crescita dei media privati e lo stabilirsi di una magistratura indipendente dai militari. Di sicuro Musharraf, con la sua dottrina di moderazione illuminata, non intendeva minare il suo stesso potere, ma l’ha fatto.
È con Musharraf che il Pakistan, alla vigilia dell’11 settembre, rivede il decennale uso politico degli islamisti quale strumento di politica estera nei confronti di India e Afghanistan. Tale politica aveva permesso agli islamisti di radicarsi nella società, nello Stato e nell’apparato di sicurezza, favorendo di fatto l’insurrezione islamista e l’afflusso di miliziani talebani e di al-Qaeda dopo l’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001.
Fino agli inizi del 2007 il regime militare di Musharraf riesce a mantenere il controllo: c’erano ancora centinaia di attacchi terroristici, ma prendevano di mira stranieri e minoranze religiose piuttosto che lo Stato. La duplice crisi del regime si concretizza nel 2007: a marzo, in seguito alla decisione di Musharraf di licenziare i vertici della giustizia e, a luglio, per via del raid attuato per cacciare un gruppo di estremisti da una delle principali moschee della capitale. I jihadisti intensificano gli attacchi contro militari, polizia e intelligence fino a che i militari non riusciranno più a gestire la situazione.
A novembre Musharraf è costretto alle dimissioni da comandante in capo dell’esercito, un mese dopo si avrà l’assassinio di Benazir Bhutto. Alle elezioni di febbraio 2008 la maggioranza dei seggi viene vinta dal partito della Bhutto e da altri partiti laici: sei mesi dopo Musharraf è costretto ad abbandonare anche la presidenza.
Dopo la caduta di Musharraf l’esercito e la principale agenzia di intelligence, l’ISI, sono sempre più in difficoltà, non riuscendo ad affrontare simultaneamente la sollevazione jihadista e la crescente volontà di occupare posizioni di rilievo da parte dei civili. La posizione dei militari è stata ulteriormente danneggiata dall’implosione delle relazioni tra Islamabad e Washington nel 2011, dovuta principalmente all’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio da parte degli Americani. I militari non sono più protagonisti in politica, ma possono sempre influenzare le decisioni politiche, soprattutto in politica estera e per quanto concerne la sicurezza nazionale.
Ciò che ha permesso al processo democratico di funzionare, però, è stato il fatto che i militari e le loro controparti civili si sono quasi sempre trovati d’accordo sulla maggior parte delle questioni. Certo, la performance del governo uscente non è stata precisamente brillante, soprattutto sul fronte della sicurezza e su quello economico. C’è un malcontento crescente verso i principali partiti. La Lega Islamica del Pakistan Nawaz, al momento, sembra il partito che saprà conquistare la maggioranza dei consensi, ma – a prescindere da quale sarà il primo partito – è probabile che dalle urne emerga un parlamento diviso, il che potrebbe rendere più dura la lotta politica.
La questione principale per il prossimo governo sarà come fronteggiare gli effetti del ritiro americano e della NATO dall’Afghanistan, che comporterà l’aumento delle azioni dei militanti in Pakistan. Washington e Islamabad sperano entrambe che un governo democratico possa produrre sufficiente stabilità politica per gestire la situazione.
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