Liberamente tratto da un articolo di George Friedman per Geopolitical Futures
La presenza dell’uomo nello spazio è stata legata fin dagli inizi alla guerra. Durante la Seconda guerra mondiale l’uomo superò per la prima volta il limite dell’atmosfera col razzo tedesco V-2, alimentato da propellente liquido (alcool misto a ossigeno liquido). I V-2 avevano una testata che pesava più di 990 kg e distruggeva qualunque cosa colpisse, ma erano molto imprecisi. Avrebbero potuto essere mirati contro i porti utilizzati dagli Alleati, invece Hitler li concepì principalmente come strumento per seminare il terrore a Londra. Gli osservatori esterni pensavano si trattasse di una scelta irrazionale, ma non era così: i missili erano costosi, i Tedeschi ne avevano relativamente pochi e inoltre i V-2 avevano un raggio di esplosione troppo ridotto e una precisione troppo scarsa perché li si potesse dirigere verso un obiettivo preciso. Lanciarli su una città aumentava le probabilità di colpire qualchecosa di importante e colpire Londra significava avere più possibilità di indurre l’opinione pubblica inglese a far pressioni sul governo perché accettasse un cessate-il-fuoco (cosa che però non avvenne).
I V-2 vennero sviluppati da un gruppo di ricercatori guidato da Wernher von Braun, scienziato tedesco che venne poi catturato dagli Americani, insieme a gran parte della sua squadra, con l’Operazione Paperclip, avviate durante le ultime fasi della guerra per reclutare gli scienziati tedeschi e sottrarre all’URSS le invenzioni tecnologiche realizzate nella Germania nazista. Anche l’URSS aveva un programma simile, che però si rivelò più difficile da attuare, innanzitutto perché molti scienziati tedeschi preferirono finire in mani americane.
In conclusione sia il programma missilistico e spaziale americano, sia quello sovietico vennero delineati negli anni ’50 e si fondarono sulla tecnologia dei V-2 e sull’apporto degli scienziati tedeschi. Il primo satellite spaziale americano venne lanciato da un missile che costituiva in buona sostanza un aggiornamento del missile Redstone, a sua volta aggiornamento del V-2.
Sia gli USA che l’URSS capirono presto l’importanza dei missili. In un primo momento pensarono di usarli come aveva fatto la Germania: come armi per colpire i civili nelle città. Ma questa idea di utilizzo cambiò in seguito alla comparsa della bomba atomica e alla stabilizzazione della Guerra fredda in Europa. In tale situazione gli USA avevano il vantaggio di poter colpire il nemico con missili ad ampio raggio situati alla periferia dell’URSS; i Sovietici, al contrario, non potevano raggiungere gli Stati Uniti con le loro bombe, né potevano accerchiarli. Costruire una forza di missili intercontinentali era molto complicato perché la tecnologia e l’addestramento necessari per realizzarla erano incredibilmente costosi e avrebbero richiesto troppo tempo.
Per sviluppare una forza missilistica che potesse tener testa alla minaccia americana i Sovietici partirono proprio dal V-2 e dagli scienziati tedeschi. Il problema era come farne un’arma intercontinentale e con un migliore sistema di guida. Svilupparono anche alcuni missili a raggio più ridotto che usarono per il lancio dello Sputnik e per mandare Yuri Gagarin nello spazio, ma non riuscirono a realizzare un missile balistico intercontinentale alimentato da carburante solido. La questione era rilevante, perché caricare un missile con propellente liquido richiede ore; riempirlo in anticipo è pericoloso e inutile, perché il liquido fuoriesce. Ciò portò i Sovietici a sviluppare sistemi che utilizzavano carburante solido, che poteva restare per lungo tempo all’interno del missile. Però continuavano ad avere il problema di non riuscire a raggiungere il suolo americano dalla terraferma, ma soltanto da sottomarini vicini alle sue coste. Non avendo missili intercontinentali e pochi sottomarini lanciamissili, i Sovietici avevano bisogno di basi vicine agli Stati Uniti e in questa chiave va letta la crisi di Cuba: di lì l’URSS poteva davvero tenere gli USA sotto tiro. Ma gli Stati Uniti risposero minacciando la guerra e i Sovietici capitolarono, perché sapevano di non poter competere in un conflitto nucleare. A questo punto i Sovietici accelerarono i programmi di sviluppo dei missili intercontinentali e altrettanto fecero gli Americani. Lo stesso avvenne con i programmi nucleari sottomarini: all’inizio degli anni ’70 le due superpotenze disponevano di missili balistici lanciabili da sottomarini e la possibilità di distruzione reciproca si faceva sempre più realistica. Divenne allora fondamentale conoscere le possibilità di cui disponeva il nemico, ma le consuete forme di intelligence non erano più sufficienti. Entrambe le parti diedero dunque un grande impulso allo sviluppo dei programmi satellitari e a partire dagli anni ’60 impiegarono fotocamere ad alta definizione per trasmettere immagini a terra (creando nel frattempo la base di quello che sarebbe diventato internet nel mondo intero). L’uso di missili balistici intercontinentali da un lato e la minaccia di una guerra nucleare dall’altro richiedevano una presenza costante nello spazio, che era ormai l’unico posto dal quale fosse possibile controllare davvero il nemico. Ed è così ancora oggi: qualunque potenza pensi di entrare in guerra, deve distruggere subito i sistemi satellitari del nemico − infinitamente più sofisticati di quelli degli anni ’60 – e impedire che i propri vengano “oscurati”, in uno spazio che è ormai sempre più affollato.
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