Nella maturità Susanna, docente di lingue e letterature straniere, sente il bisogno di studiare psicologia e capire le complesse emozioni che logorano la psiche di chi, come lei, è reduce di traumi profondi. Si specializza in terapie di sostegno. Nel 1989 inizia a lavorare nel primo istituto di sostegno psicosociale per i sopravvissuti alla Shoah, in qualità di assistente sociale a indirizzo psichiatrico. Conosce sempre più a fondo il trauma dei superstiti della Shoah.
400.000 sopravvissuti arrivati in Israele si costruirono con coraggio ostinato una famiglia e una vita normale, ma all’età della pensione gli effetti del trauma inespresso riemersero con forza. Per tanti anni avevano taciuto, come tutti, finché non fu più possibile tacere e continuare a vivere.
Un caso particolare è quello dei bambini perseguitati e superstiti, portatori di un trauma emotivo profondo ma diverso da quello di coloro che durante le persecuzioni avevano consapevolezza razionale degli eventi.
L’esperienza di Israele è stata usata per aiutare i sopravvissuti ad altri genocidi, ad esempio quello dei Tutsi in Ruanda, a dar sfogo alle emozioni e trovare un ambiente disposto ad ascoltarli e render loro un minimo di giustizia. È troppo presto per capire quanto questo approccio serva davvero a limitare le conseguenze del trauma anche sulle generazioni successive.
Noi Italiani possiamo provare a immaginare il trauma dei sopravvissuti anche a partire dalle parole di Primo Levi in Se questo è un uomo.
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