da un articolo di George Friedman
I summit sul cambiamento climatico si concludono generalmente con l’annuncio della catastrofe imminente e della necessità di adottare misure drastiche per impedirla ma, in definitiva, non delineano alcuna prospettiva reale di cambiamento. Questi incontri portano alla ribalta una disputa di vecchia data in Europa riguardante il rapporto tra stato, intellettuali e capitalismo (cioè le forze economiche).
Il capitalismo non è frutto di un disegno intellettuale, ma di rivoluzioni sociali e tecnologiche. Divenne movimento intellettuale soltanto dopo esser divenuto una realtà sociale e politica. Fin dagli albori venne attaccato dal pensiero politico di destra: Johann Karl Rodbertus accusò il capitalismo partendo da posizioni monarchiche, sostenendo che avrebbe distrutto i rapporti sociali e trasformato le persone in creature atomizzate e barbare. Più o meno nello stesso periodo pensatori di sinistra come Karl Marx sostennero anch’essi che il capitalismo avrebbe condotto alla catastrofe, producendo impoverimento e alienazione. Destra e sinistra erano dunque concordi nell’affermare che il capitalismo – se lasciato senza vincoli − avrebbe causato soltanto calamità, perciò lo stato doveva assumere il controllo dei mezzi di produzione, mentre a guidare lo stato dovevano essere ideologie ben elaborate dagli intellettuali.
Il dibattito sul cambiamento climatico è l’ultima edizione di questo dibattito antico: che cosa accadrà all’umanità se lasceremo che siano le logiche del capitale, del profitto e dell’efficienza a definire la società? Nel caso del clima le conseguenze non saranno povertà, disuguaglianza o alienazione, ma la distruzione dell’ambiente e, potenzialmente, dell’umanità intera. Il principio di fondo dei summit sul clima è dunque quello del XIX secolo: il capitalismo sta conducendo l’umanità al disastro, soltanto l’intervento dello stato può salvare l’umanità e soltanto gli intellettuali dispongono delle conoscenze necessarie per governare il mondo.
Il punto nodale del dibattito sul cambiamento climatico non è se il clima stia cambiando o meno – certamente sta cambiando – e neppure se stia cambiando a causa degli uomini o seguendo un ciclo naturale. La domanda fondamentale è se sia davvero una catastrofe. Tutte le discussioni assumono come punto di partenza che le conseguenze del cambiamento climatico siano disastrose, ma in realtà non lo sappiamo. Il cambiamento potrebbe farci perdere le città costiere ma trasformare il Sahara nella regione più fertile del mondo, come alcune ere geologiche fa. Ma non lo sappiamo, perché la retorica dominante insiste sulla catastrofe. Contenere il cambiamento climatico significherebbe permettere allo stato di definire le nostre vite e agli intellettuali (che conoscono e prevedono i pericoli) di indirizzare lo stato. È un prezzo alto da pagare, ma va pagato se il cambiamento climatico conduce alla catastrofe, e se gli intellettuali sanno fermare la catastrofe. Ma si tratta davvero di una catastrofe? In realtà non lo sappiamo.
Il pensiero anticapitalista del XIX si trasformò negli orrori del XX secolo, quando destra e sinistra presero il controllo dello stato e lo stato prese il controllo dell’economia e degli uomini. Fu un enorme prezzo pagato a personaggi come Hitler e Stalin, entrambi critici nei confronti del capitalismo foriero di catastrofe. Gli ambientalisti non sono Hitler o Stalin e non hanno intenzioni diverse da quelle che dichiarano – salvare l’umanità dal disastro. Ma insistere sulla catastrofe come effetto inevitabile e unico del capitalismo, sullo stato come strumento di redenzione e sugli intellettuali come unica possibile guida non è certo un’idea innovativa. Il clima sta cambiando, pare, ma l’argomento della catastrofe è semplicistico e logoro.
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