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Come il corpo umano invecchiando perde muscoli e accumula grasso, così le società che hanno un’alta percentuale di vecchi perdono energia creativa e produttiva e tendono ad accumulare da un lato ricchezza statica e improduttiva (grasso che cola e va sprecato), dall’altro debiti che non si riescono a pagare (grasso già irrancidito).
Essendo vecchia, conosco tanti vecchi: tutti hanno seconde, terze e anche quarte case che non usano, che non riescono ad affittare né a vendere a condizioni ragionevoli, per cui pagano tasse e spese di manutenzione che prosciugano i loro risparmi liquidi. Molti non hanno figli. Molti altri hanno figli che, seppur adulti di mezza età e in carriera, non guadagnano abbastanza per potersi sobbarcare le spese e le tasse delle seconde case, che perciò rimangono sulle spalle dei genitori o addirittura dei nonni. Alcuni di questi figli hanno attività professionali o commerciali che rendono poco, per cui hanno fatto debiti che ora stentano a ripagare. Qualcuno è proprio fallito senza pagare i debiti. Non si tratta di storie personali occasionali, poco significative; si tratta di situazioni così frequenti da rappresentare un problema economico e sociale di rilievo. Non è un problema soltanto italiano: quasi tutte le società più sviluppate hanno problemi demografici ed economici che sociologhi ed economisti studiano da anni e che i politici cercano di risolvere, per lo più senza successo.
Secondo il National Bureau of Economic Rersearch degli USA l’invecchiamento e la riduzione della popolazione possono causare la perdita di 1,2 punti percentuali di PIL all’anno: tutta a differenza fra lo sviluppo e il declino. Nonostante il quantitative easing in atto da anni in Giappone, negli Stati Uniti e nell’Eurozona (cioè l’abbondanza di liquidità offerta dalle banche centrali a costi vicini allo zero), la crescita economica non si avvia perché scarseggia il coraggio o la capacità di intraprendere e di innovare. Il coraggio di intraprendere scarseggia non perché manchino i mezzi, ma perché mancano le energie in popolazioni che hanno un’età media sempre più avanzata. Mancano i giovani, manca la loro energia creativa e produttiva. Manca anche la loro voglia di consumi, che diminuisce con l’età, mentre quei giovani che vorrebbero consumare di più guadagnano troppo poco per poterlo fare.
Il Giappone ha la popolazione più vecchia al mondo: il 26,3% dei Giapponesi ha più di 65 anni – fra vent’anni i vecchi saranno quasi il 40%. La natalità media è di 1,4 bimbi per ogni donna. Nel 2010 c’erano 128 milioni di Giapponesi, a inizio 2017 ce ne saranno 2 milioni in meno. I costi per le pensioni e per la sanità crescono ogni anno, mentre il numero di persone che lavora e paga contributi e tasse diminuisce ogni anno. Il governo continua a contrarre debiti per far fronte alla spesa sociale. Il debito pubblico del Giappone a fine 2016 sarà pari al 230 % del PIL, quasi tutto sottoscritto dai cittadini giapponesi, che perciò sono molto ricchi sulla carta − ma i titoli di stato che possiedono potrebbero un giorno non venir ripagati e non valere più nulla.
Il governo giapponese fa riforme per semplificare la burocrazia e ridurre i costi e le tasse, la Banca Centrale offre prestiti a tasso zero per chi voglia avviare un’impresa ma, come si dice in gergo, il cavallo non beve: gli si offrono secchi di acqua fresca, ma non ha voglia di bere, non si sente bene. I consumi calano, calano i prezzi.
In altri paesi il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione vengono compensati dall’immigrazione, ma il Giappone è un arcipelago che ha sviluppato nei millenni un alto grado di affinità etnica al proprio interno e ora i Giapponesi temono di danneggiare la coesione sociale che li caratterizza se accolgono un grande numero di persone di altra cultura al proprio interno. Le norme sociali dei Giapponesi sono estremamente complesse e rigorose, pochi stranieri vi si adattano. Non vi si adattarono neppure i figli degli emigrati giapponesi tornati in patria negli anni ’80, quando l’ormai ricco Giappone offrì loro condizioni molto convenienti purché tornassero con la famiglia: la grande maggioranza dopo un paio di anni se ne andò nuovamente.
Ora il Giappone fa il possibile per modificare la cultura tradizionale in modo che anche le donne partecipino in massa alla vita economica del paese, con possibilità di far carriera alla pari degli uomini – cosa difficile da imporre in tempi brevi e che avrà anche un risvolto negativo, perché quando le donne lavoreranno a tempo pieno probabilmente faranno ancora meno figli, visto che l’orario di lavoro in Giappone raggiunge spesso le 80 ore la settimana, lasciando ben poco tempo per i figli.
L’etica del lavoro (e il senso del dovere) dei Giapponesi è la base della loro straordinaria coesione sociale, oltre che della loro ricchezza. A fine ’800 i Giapponesi passarono in breve tempo dal feudalesimo alla produzione industriale di massa, senza attraversare, come facemmo noi Europei, secoli di avventure sugli oceani, di liberi commerci e libere città, di rivoluzioni e costituzioni strappate ai sovrani. I rapporti all’interno dell’azienda moderna vennero allora concepiti e vissuti in modo analogo a quelli fra il signore feudale e i suoi contadini: i dipendenti lavorano duramente e con fedeltà, i dirigenti danno non soltanto lavoro ma anche sicurezza e assistenza a tutti i dipendenti per la durata della loro vita, senza abbandonarli mai. Per poter offrire sempre più sicurezza ai dipendenti, le aziende giapponesi continuarono a crescere costantemente; quando non poterono più crescere in patria crebbero andando a produrre e a vendere all’estero. Ora però anche questa formula non offre più crescita, perciò le aziende giapponesi hanno cessato di assumere. Ricorrono invece a contratti temporanei di breve termine con collaboratori esterni, che non danno sicurezze né garanzie. Ancor più che da noi è grande il divario fra i dipendenti, per lo più anziani, che guadagnano tanto in base a contratti a tempo indefinito che premiano la fedeltà e l’anzianità, e i giovani che lavorano saltuariamente per un breve periodo, con contratti temporanei e retribuzioni minime. Così il Giappone offre un ottimo esempio di come sia difficile guidare un’economia che garantisce troppo chi lavora, qualunque sia l’ideologia sottostante. Che si tratti di etica comunista come nell’Unione Sovietica o di etica feudale come in Giappone, un’economia irrigidita da troppi vincoli prima o poi cessa di funzionare, perché l’economia come la cultura si nutre di libertà di scelta, di movimento, di cambiamento, di scambio.
Una forte speranza è sempre la possibilità di innovazione tecnologica. I Giapponesi sono non soltanto estremamente laboriosi e disciplinati, ma hanno anche una passione per la tecnologia. Sono all’avanguardia nel mondo nella progettazione e realizzazione di robot dotati di intelligenza artificiale, che potrebbero sostituire la mano d’opera umana in molte funzioni, anche per assistere vecchi e malati. Inoltre il Giappone si sta riarmando, per la prima volta dal dopoguerra, e sta sviluppando un’industria legata alle necessità militari che porterà nuovo sviluppo economico e tecnologico, almeno per qualche lustro.
Osservare il Giappone nei suoi tentativi di affrontare con successo i problemi che anche noi dobbiamo affrontare può essere fonte di ispirazione, oltre che strumento di verifica delle conseguenze di iniziative che potremmo tentare anche noi.
Laura Camis de Fonseca
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