A fine marzo 2015 la Suprema Corte del Popolo ha accusato Zhou Yongkang, ex membro del Comitato Permanente dell’Ufficio Politico del Partito e il funzionario di più alto livello coinvolto finora nella campagna anti-corruzione in corso in Cina, di aver “violato la legge, compromesso la coesione interna del Partito e condotto attività politiche al di fuori di esso”. In altre parole, è un’accusa di sovversione, mentre fino a ora le accuse erano sempre state soltanto di corruzione. È un cambiamento significativo.
Xi intende perseguire due obiettivi, per affrontare adeguatamente i difficili anni a venire: stabilire un efficace stato di diritto e risanare la gestione delle grandi aziende di stato, sia economicamente sia politicamente. A febbraio è stata annunciata una campagna anticorruzione rivolta soprattutto a 26 grandi imprese statali e ai settori delle risorse, dell’edilizia, dell’industria pesante e delle telecomunicazioni. In contemporanea è stato annunciato un programma di fusioni e riforme per la grande industria statale. Gli alti funzionari in carica hanno quindi una spada di Damocle sulla testa: o cooperano alle riforme, o rischiano di essere accusati di corruzione o, come si è visto recentemente, di sovversione.
Xi sta cercando di modificare i modelli strutturali che regolano l’economia e la creazione del consenso politico e sociale. Il modello attuale era stato costruito da Deng Xiao Ping dopo la morte di Mao e seguito con successo dai delfini da lui nominati nei decenni successivi. La sua legittimità era basata sulla promessa di prosperità e stabilità crescente, ma si tratta di un modello che non risponde più alle nuove condizioni. La Cina deve passare da un modello di espansione basato su esportazioni a basso costo e investimenti nell’edilizia a un nuovo modello economico basato sul consumo interno, sui servizi e sulla manifattura ad alto valore aggiunto. La transizione durerà probabilmente un decennio e sarà accompagnata da profonde tensioni sociali, economiche e politiche.
La Cina sta tentando di costruire un nuovo ordine politico più centralizzato e personalizzato: in sostanza, una dittatura sotto Xi. Considerati gli obiettivi di sviluppo economico e sociale della Cina – incentivare consumo interno e industrie innovative e ad alto valore aggiunto – è chiaro che per avere successo questa dittatura dovrà essere radicalmente diversa da quella di Mao.
La nuova leadership cinese sta diventando più autoritaria, ma nel contempo persegue un modello di amministrazione basato su una burocrazia autonoma, efficiente e performante. Probabilmente questo modello prevederà un qualche tipo di tutela dei diritti di proprietà privata e intellettuale − almeno per i cittadini cinesi – come mezzo per stimolare il consumo interno e l’innovazione. Di recente il Partito ha dichiarato l’importanza del rafforzamento dello stato di diritto, e ha compiuto piccoli passi verso questo obiettivo. Anche le campagne anticorruzione servono allo scopo, come parte del processo di consolidamento e miglioramento dell’efficienza del settore statale. Autoritarismo e stato di diritto efficiente non sono incompatibili, così come non lo sono dittatura e amministrazione efficiente. La storia offre esempi di paesi che hanno abbinato un governo forte con la tutela della proprietà privata e dei contratti, pur non adottando un modello democratico: la Prussia nel XIX secolo o Singapore nel XX e XXI secolo. Però la Prussia, all’apice della sua espansione nel 1871, contava meno di 25 milioni di persone, e meno di 10 milioni alla fine delle guerre napoleoniche. Singapore è una città con 5,4 milioni di abitanti. La Cina invece ha un sesto della popolazione del mondo: è molto più difficile replicare il modello. Per amministrare un paese grande come la Cina, il governo centrale deve contare su un apparato burocratico eccellente, in grado di gestirne le complessità. Ma la storia della Cina ha visto il ripetersi di una stessa dinamica: con il passare del tempo, la burocrazia stessa usurpa il potere centrale, per soddisfare i propri interessi. Scoppia allora una crisi nazionale, il governo centrale tenta di riconquistare autorità e controllo, ma si rende conto che il potere è ormai frammentato. La burocrazia resiste al cambiamento e il sistema collassa, dopo vari tentativi di riforma. Emerge allora un nuovo potere centrale e il ciclo ricomincia.
Anche il Partito Comunista ha già vissuto questa dinamica. Mao ha seguito la strada della rivoluzione permanente, permettendo che disordini frequenti impedissero alla burocrazia di usurpare completamente il potere centrale. Deng invece ha delegato molti poteri alla burocrazia, sperando che la prosperità economica che ne sarebbe derivata avrebbe permesso al centro di gestire meglio le varie forze centrifughe in competizione tra loro. La transizione da Hu Jintao a Xi Jinping e la sfida di Bo Xilai hanno poi messo in discussione il modello di Deng. Anche Bo voleva costruire il consenso per togliere risorse alle ricche economie delle regioni costiere, in favore delle regioni dell’interno, ancora sottosviluppate, ma lo costruiva utilizzando una propaganda rivoluzionaria di tipo maoista che correva il rischio di spaccare la coesione sociale. Invece di ricorrere alla stessa ideologia, la macchina della propaganda di Xi vuole costruire un’immagine simile a quella di un presidente americano o europeo, presentandolo come un leader di cui ci si può fidare e che sarà in grado di guidare la Cina attraverso tempi difficili.
Xi fa leva soprattutto sul nazionalismo, talvolta sul patriottismo estremo, nell’intento di mettere d’accordo tutti i Cinesi sulle scelte compiute. Non è certo che la Cina abbia il tempo di attuare i cambiamenti per evoluzione pacifica. Avviare grandi ristrutturazioni economiche è come addentrarsi in un campo minato, come sappiamo anche in Italia.
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