Dalla primavera del 2013 un gruppo di poco più di 200 Mojahedin del Popolo, principale componente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana che da oltre trent’anni si batte per il rovesciamento del regime iraniano, ha trovato rifugio in Albania.
I rifugiati portano con sé il terribile ricordo degli ultimi anni in Iraq, paese in cui vivevano dopo aver abbandonato l’Iran: molti hanno perso fratelli, sorelle, figli, genitori, altri hanno dovuto lasciare i familiari superstiti per ricevere le cure di cui avevano bisogno e salvare la pelle. Molti portano sul corpo i segni della guerra e della tortura, altri hanno scolpito sul volto il dolore di anni di fatiche, maltrattamenti e malattie trascurate.
Negli anni ’80 i Mojahedin avevano trovato ospitalità nell’Iraq di Saddam Hussein. Avevano base a Camp Ashraf, piccola città a 80 kilometri dal confine con l’Iran. Dopo il rovesciamento di Saddam Hussein i Mojahedin negoziarono accordi con gli Americani e passarono sotto la protezione internazionale, con la garanzia del governo americano. Per anni i Mojahedin hanno collaborato con i servizi di intelligence americani e NATO per raccogliere informazioni sul programma nucleare iraniano.
Ma il governo iracheno attuale, a maggioranza sciita e filo-iraniano, è ostile ai Mojahedin. La loro vita in Iraq è quotidianamente in pericolo dopo il ritiro delle truppe americane. Perciò nel 2012 fu raggiunto un accordo fra l’UNAMI (UN Assistance Mission for Iraq) e il governo iracheno per trasferire 3400 Mojahedin del Popolo da Camp Ashraf a Camp Hurriya (ex presidio militare americano vicino a Baghdad, che gli Americani chiamavano Camp Liberty), in attesa di essere ricollocati all’estero tramite l’UNAMI stesso.
Camp Hurriya è 80 volte più piccolo di Ashraf, è grande solo 2500 km quadrati, ed è una sorta di prigione a cielo aperto. I rifugiati non hanno né acqua corrente, né luce né gas, sono sottoposti al rigido controllo delle forze di sicurezza irachene che impediscono ogni movimento. Negli ultimi mesi il campo è stato attaccato quattro volte a colpi di missili, senza che i responsabili venissero né fermati né individuati.
Il governo iracheno, di comune accordo con Teheran, invece di agevolare l’espatrio dei rifugiati ne ostacola la partenza inventandosi ogni giorno nuovi cavilli burocratici e macchiandosi di gravi violazioni dei diritti umani.
I rifugiati giunti in Europa raccontano che le autorità irachene impediscono ai malati e ai feriti di ricevere assistenza medica, aggravandone deliberatamente le condizioni. Bloccano l’ingresso di medicinali, mettendo a repentaglio la salute dei rifugiati. Non forniscono attrezzature né materiali (pale, rastrelli, cazzuole, cemento, etc.) per la riparazione delle infrastrutture del campo dopo gli attacchi missilistici, costringendo i rifugiati a lavorare a mani nude. È proibito piantare alberi, che potrebbero apportare un po’ di refrigerio durante le torride estati. I rifornimenti umanitari di cibo vengono bloccati e lasciati marcire sotto il sole.
I primi Mojahedin che hanno ottenuto i documenti per l’espatrio sono stati trasferiti in Albania, dove hanno ricevuto assistenza medica. Molti altri paesi europei si sono impegnati ad accoglierne un certo numero, inclusa l’Italia, ma frappongono ostacoli burocratici e amministrativi alla realizzazione dell’impegno. Tre rifugiati giunti in Albania erano talmente gravi che sono morti all’arrivo. Altri sono sopravvissuti ma hanno subito danni permanenti per il ritardo nelle cure.
Al di là del dramma umanitario, restano poi le questioni legali sulla proprietà dei beni di Camp Ashraf. Dopo lo sgombero forzato del 2012, i Mojahedin avevano lasciato una piccola delegazione di un centinaio di persone a prendersi cura della vendita delle proprietà. Nel 2012 un’azienda inglese aveva offerto $525 milioni per l’acquisto in blocco di tutte le proprietà, ma il governo iracheno si è opposto all’accordo. E il 1° settembre 2013 le forze irachene hanno fatto irruzione a Camp Ashraf massacrando 52 persone e rapendone altre sette, di cui non si sa più nulla. Potrebbero essere rinchiuse in un carcere di massima sicurezza nella zona verde di Baghdad.
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