Donald Trump ha accolto alla Casa Bianca il presidente siriano Ahmed al-Sharaa, già capo dell’ISIS nella guerra civile siriana, mostrando al mondo di voler proporre la Siria come pietra angolare di un nuovo quadro di sicurezza mediorientale. Il gesto sottolinea la convinzione di Trump che gli attori locali, persino se ex avversari degli Stati Uniti, debbano assumersi l'onere del mantenimento della pace.
Dopo l'incontro al-Sharaa ha dichiarato a Fox News che la Siria "non è più una minaccia per la sicurezza", ma "un alleato geopolitico". Ha escluso la possibilità di negoziati diretti con Israele, ma ha suggerito che la mediazione statunitense potrebbe renderli possibili. Trump ha descritto al-Sharaa come un leader pragmatico che potrebbe far della Siria "un grande successo" e ha affermato che al-Sharaa "va molto d'accordo" con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, concludendo: "Stiamo lavorando anche con Israele per andare d'accordo con la Siria, per andare d'accordo con tutti".
Il Levante è il corridoio cruciale che collega il Mediterraneo orientale al Golfo, nonché il luogo in cui si intersecano gli interessi turchi, israeliani e arabi. La scommessa dell'amministrazione Trump è che uno stato siriano ricostruito, vagamente allineato con gli Stati Uniti e i suoi partner locali, possa contenere l'influenza dell'Iran e radicare un nuovo quadro di sicurezza in Medio Oriente. La difficoltà, tuttavia, sta nel gestire le ambizioni sovrapposte e divergenti di questi partner.
La Turchia è il partner di maggiore influenza. È stato il sostegno turco a consentire ad al-Sharaa di rovesciare il regime di Assad a dicembre 2024 - risultato a sua volta reso possibile dalla sconfitta di Hezbollah da parte di Israele, che ha spezzato il controllo decennale dell'Iran sul Levante. Ora la strategia americana dipende sostanzialmente da Ankara. È una mossa rischiosa, soprattutto perché le ambizioni di Ankara vanno oltre la stabilizzazione, fino a raggiungere l’egemonia regionale. Ma il bacino di partner affidabili è limitato e gli Stati Uniti considerano la Turchia indispensabile.
Gli Stati Uniti vorrebbero collaborare con uno stato arabo influente. Il candidato più ovvio è l'Arabia Saudita, il più grande produttore mondiale di greggio e attore di grande rilievo nel mondo arabo e musulmano, ma privo delle capacità militari e dell'agilità strategica necessarie per sostenere la stabilità regionale. Ciò nonostante, l'Arabia Saudita rimane un pilastro essenziale di qualsiasi strategia mediorientale. L'Arabia Saudita ha finalizzato un Accordo di mutua Difesa Strategica con il Pakistan, alleato di lunga data. Il patto garantisce a Riad l'accesso all'esperienza militare di Islamabad: passo fondamentale per evitare che Ankara domini completamente la regione. Per gli Stati Uniti, il patto saudita-pakistano è esattamente il tipo di accordo che può assolvere all’onere di stabilizzare la regione, riducendo così l'esposizione finanziaria e strategica degli Stati Uniti e liberando risorse per concentrarsi su altre sfide.
Lo scoglio più aspro sarà conciliare le divergenze di interesse fra Turchia e Israele. Per Israele la prospettiva di condividere un confine con un regime siriano sostenuto dalla Turchia è allarmante. Preoccupazioni simili sono alla base dell'opposizione di Israele alla partecipazione turca alla Forza Internazionale di Stabilizzazione prevista per Gaza. Mentre gli Stati Uniti considerano i legami di Ankara con Hamas potenzialmente utili per neutralizzare il gruppo come forza combattente, Israele li vede come un pericolo. Sebbene Stati Uniti e Israele concordino sul contrasto all'influenza iraniana in Siria e a Gaza, divergono nettamente sul ruolo della Turchia: gli Stati Uniti vedono la Turchia come il primo strumento di contenimento dell'Iran, mentre Israele la percepisce come un nuovo pericolo.
Gaza sarà il banco di prova. La priorità immediata è rendere operative le Forze di Sicurezza Interne (ISF), il che richiederà che almeno otto stati con interessi contrastanti lavorino di concerto, sotto la guida degli Stati Uniti. Non esiste precedente di una task force congiunta araba e musulmana su larga scala che stabilizzi un ambiente insicuro senza il coinvolgimento attivo degli Stati Uniti, il che rende Gaza una cartina di tornasole della capacità della regione di assumersi qualche responsabilità in materia di sicurezza.
Gli ostacoli sono formidabili: disarmare Hamas, addestrare un nuovo apparato di sicurezza palestinese e sostenere la creazione di una struttura di governance funzionale. E si dovranno raggiungere questi obiettivi coordinandosi con Israele, il cui rapporto con molti membri delle ISF è teso o inesistente. Ma l'alternativa – la continuazione dell'occupazione israeliana di Gaza – comporta costi politici, economici e di sicurezza ancora più elevati.
Un successo a Gaza farebbe molto più che stabilizzare un'enclave devastata dalla guerra: convaliderebbe la strategia di Washington e creerebbe un modello di condivisione degli oneri a livello regionale.
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