L’incantamento della mente araba

26/08/2025

È il titolo del saggio di Hussein Aboubakr Mansour per il mensile online Mosaic del mese di luglio 2025. Mansour, egiziano, è ricercatore all’ ISGAP, Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy (in USA) ed è autore del substack ‘Abrahamic Metacritique’. Mansour è uno di quegli intellettuali che, essendo pienamente integrati sia nel mondo arabo che in quello occidentale, meglio di altri capiscono e interpretano la realtà e la storia delle interazioni fra i due mondi nel corso dell’ultimo secolo. Diamo qui sotto un riassunto in italiano del suo ottimo saggio, invitando a leggere l’originale.

All'indomani degli attacchi dell'11 settembre e dell'inizio della Guerra Globale al Terrore, l'Occidente, infrante le sue illusioni di armonia post-Guerra Fredda, fu costretto a confrontarsi con la possibilità che una vasta fascia del mondo nutrisse un profondo odio nichilista nei suoi confronti. Questo odio era inspiegabile. Bernard Lewis lo interpretò come la furia di una civiltà sclerotizzata, umiliata dal ricordo della sua antica gloria, che attribuiva il proprio declino a forze esterne. Ma la realtà è molto più articolata.

La crisi araba, dice Mansour, non è semplicemente una storia di declino o stagnazione, ma di una rapida modernizzazione andata terribilmente male, dell'adozione fin troppo pervasiva di alcune delle idee più pericolose dell'Occidente e della loro eredità nichilista. Questa storia inizia nelle aule delle università europee: una particolare visione della storia, importata dal pensiero europeo (soprattutto dall'idealismo tedesco), è arrivata a riconfigurare dall'interno l'identità, lo scopo e la vita simbolica araba. L'odio espresso da al-Qaeda non era premoderno. Era post-illuminista: il prodotto di un mondo in cui le grandi narrazioni umaniste, post-religiose e del progresso secolare si erano decomposte, lasciando dietro di sé solo frammenti di identità costruiti sulla rabbia simbolica… Le società arabe odierne non sono il prodotto di una riconversione di massa all'Islam, ma della conversione di massa da esso.

Questa storia non inizia con l'ideologia, ma con il linguaggio. Nel 1826, un giovane imam di nome Rifa'a al-Tahtawi fu inviato a Parigi da Mohammad Ali, l'ambizioso sovrano d'Egitto. Nel 1831, tornò in Egitto con una visione plasmata dal presupposto astratto fondamentale dell'Illuminismo: che l'uomo, la storia e la ragione formino un ordine morale autosufficiente. Si impegnò quindi a creare un arabo funzionale e moralmente comprensibile, in grado di trasmettere le idee, i valori e i quadri istituzionali della modernità europea(...) I termini che Tahtawi introdusse nell'arabo – hurriyya (libertà), tamaddun (civiltà), taqaddum (progresso) – non erano nuovi modi per descrivere concetti esistenti. Erano innovazioni epistemologiche.

Negli anni '60 e '70 dell'Ottocento, questo progetto linguistico, guidato da Tahtawi e dai suoi contemporanei, era maturato in un programma pedagogico completo per la produzione di una nuova cultura d'élite. Fu istituzionalizzato attraverso agenzie di traduzione, programmi scolastici e pubblicazioni statali. Fu proseguito e ampliato da molti altri uomini che adottarono la triade fondamentale dell'Illuminismo: ragione, progresso e uomo come principi organizzatori di una moderna cultura araba. Negli ultimi decenni del secolo, questi principi erano entrati a far parte della vita politica. (…) A soli 60 anni dal ritorno di Tahtawi dalla Francia, l'arabo non solo traduceva gli ideali illuministi, ma era diventato capace di esprimere il pensiero moderno su economia, rivoluzione, conflitto di classe e liberazione universale.

Questo sviluppo avrebbe raggiunto la sua articolazione più coerente negli scritti di Rashid Rida (1865-1935), uno dei padrini del pensiero islamico moderno e dei Fratelli Musulmani. Fondatore della rivista al-Manar, il Faro, Rida infuse nuovi significati ai termini religiosi islamici. La ummah non era solo un insieme di fedeli, ma qualcosa di simile a una nazione nel senso moderno, europeo. Il califfato non era più un'istituzione giuridica, ma qualcosa di necessario per il successo della civiltà islamica (…..) Questo vocabolario accennava a un linguaggio politico globale emergente, la cui legittimità derivava dalla funzione storica, non dall'origine divina. (…..) Qui risiede il paradosso di Rida, della sua cerchia e dei suoi eredi spirituali. Da un lato, volevano creare una rinascita islamica; dall'altro, trasformarono completamente il significato dell'Islam, spostandone il baricentro dalla legge e dalla rivelazione all'uomo, alla storia e al mondo.

Nei primi decenni del 1900 le idee più recenti dell'Europa iniziarono ad essere costantemente tradotte, riconfezionate e diffuse tra l'intellighenzia araba, usando questo nuovo linguaggio. Ma il pensiero europeo era cambiato molto. Il razionalismo liberale aveva ceduto il passo al nazionalismo romantico, allo spirito universale di Hegel e naturalmente al messianismo rivoluzionario di Marx. E nei decenni successivi alla Prima Guerra Mondiale, il pensiero europeo, e in particolare quello tedesco, divenne ancora più radicale. Questo era l’inebriante cocktail ideologico che veniva servito dall'Europa ai giovani intellettuali arabi, proprio mentre l'indipendenza politica stava arrivando in Medio Oriente.

Con l'infiltrarsi dello storicismo tedesco nel flusso sanguigno intellettuale arabo, anche le parole furono reinterpretate violentemente. La libertà (hurriyya) non era più l'emancipazione dell'individuo all'interno di un sistema razionale basato sullo stato di diritto, ma la realizzazione di un destino collettivo. Le nazioni non avrebbero raggiunto la libertà attraverso il progresso, ma l'avrebbero conquistata attraverso la lotta. La civiltà (tamaddun) cessò di essere un orizzonte universale; divenne un segno di autenticità e radicamento organico in uno spirito nazionale. La volontà (al-irada) non indicava più le decisioni di un cittadino libero e razionale, ma il processo metafisico attraverso il quale una collettività raggiungeva il proprio destino storico. Gli intellettuali arabi parlavano sempre più spesso anche del sé (al-dhat) e del popolo (al-sha'b o al-umma; in tedesco, Volk) come entità metafisiche, e soprattutto di lotta (jihad o nidal; in tedesco, Kampf) come un modo di essere attraverso il quale la storia avanza. Quest'ultima, come affermò Michel Aflaq, il fondatore del Baathismo, "non è semplicemente un mezzo, ma un fine in sé". (….) Ed è questo assolutismo metafisico che avrebbe infine delineato la tragica traiettoria del pensiero arabo moderno. La filosofia della storia, non la scolastica abbaside, è la vera visione del mondo degli arabi moderni, e la rivoluzione, non l'Islam, è il loro principale principio organizzativo. La sacralizzazione della storia da parte della filosofia tedesca offrì un significato dopo il ritiro della rivelazione come fonte di ordine morale e cosmico.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, le ideologie tedesche – fasciste o marxiste – non erano più le oscure dottrine dei circoli radicali europei, ma il linguaggio morale dominante della gioventù internazionale, soprattutto all'interno delle sue università, anche in Francia. Parigi, a lungo meta di riformatori e studenti arabi, divenne il vivaio dei radicali arabi (…) Fu a Parigi che una generazione di radicali arabi – palestinesi, siriani, egiziani, libanesi e algerini – assorbì il sedimento intellettuale dell'idealismo tedesco, dello storicismo hegeliano e della teologia marxista. In altre parole, la mente rivoluzionaria araba ereditò la sua metafisica della lotta attraverso la sua fedeltà al pensiero europeo.

La devastazione della Prima Guerra Mondiale aveva screditato gli ideali illuministi sia per gli europei che per gli arabi. La riforma era stata tentata negli ultimi decenni dell’Impero ottomano, ed era fallita. Il pensiero tedesco pareva saper leggere il significato nascosto della storia, offriva agli intellettuali arabi ciò che l'Illuminismo francese non avrebbe mai potuto offrire: la vittoria sull'umiliazione attraverso il raggiungimento di una conoscenza nascosta. La tradizione filosofica tedesca, da Fichte a Heidegger, nacque dalla rivolta tedesca contro il dominio imperiale napoleonico, presentava l'Illuminismo francese e britannico non come l'apice della civiltà, ma come un tradimento dell'essere, del radicamento, del sangue e del suolo, dell'autenticità primordiale. Questa critica trovò profonda risonanza tra gli arabi. A questo si aggiunge il fatto che la Germania non aveva partecipato alla spartizione del Medio Oriente, ma aveva sostenuto il Sultano contro le potenze coloniali.

Il nazionalismo tedesco, il marxismo tedesco e l'esistenzialismo tedesco portavano tutti dentro di sé un'ostilità nascosta spesso espressa in discorsi antisemiti) verso la cultura liberale, empirica, mercantile e amministrativamente razionale del potere anglo-francese. Ai pensatori arabi umiliati dalla spartizione del Medio Oriente fra Francesi e Inglesi, il pensiero tedesco offriva un'alleanza segreta. Parlava con toni di rovesciamento del mondo, di ira profetica, di vendetta metafisica contro le stesse potenze che ora governavano il loro mondo.

L'Unione Sovietica e il Terzo Reich furono l'incarnazione della modernità intellettuale tedesca: sistematica, totalizzante e redentrice. Attingendo alla dialettica hegeliana, alla teleologia marxista e al nazionalismo atavico, entrambi i regimi riuscirono a realizzare ciò che nessun sistema liberale dell'epoca era riuscito a realizzare: la trasformazione totale di società in preda al collasso politico, alla sconfitta militare e alla crisi economica in potenze affermate a livello globale. (….) Entrambi i regimi offrirono non solo una riforma, ma la salvezza. Proposero una nuova antropologia, un uomo rigenerato fuso con il destino collettivo, e lo fecero con una chiarezza e una violenza che si ponevano in netto contrasto con l'esausto linguaggio morale dell'ordine borghese anglo-francese.

A metà degli anni '30, la gioventù araba istruita era per lo più divisa tra il sostegno a Hitler e quello a Stalin. L'intellettuale palestinese cristiano-marxista-islamista Munir Shafiq ricorda che i bambini delle scuole di Gerusalemme si scontravano con le bande filo-hitleriane e filo-staliniane.

Negli anni '30 e '40, il mondo arabo era diventato un calderone bollente di fermentazione ideologica. Una nuova generazione di pensatori – cresciuti dopo il crollo dell'Impero ottomano, educati nei sistemi francese e britannico e radicalizzati nell'atmosfera globale tra le due guerre e in tempo di guerra – iniziò ad articolare dottrine politiche che avrebbero organizzato la vita intellettuale araba fino a oggi. (….) Le ideologie risultanti – nazionalismo arabo, baathismo, islamismo – non si limitarono a replicare o imitare il fascismo e il marxismo. Piuttosto, riprodussero la struttura simbolica della politica totalitaria tedesca in forma araba e musulmana.

Mansour elenca alcuni dei più famosi intellettuali e politici del Medio oriente dagli anni 30 in poi, tutti ispirati dal pensiero tedesco:

  • Antoun Saadeh (1904-1949), cristiano, che fondò il Partito Socialista Nazionalista Siriano (SSNP) nel 1932. Voleva la svastica come simbolo per la bandiera della nazione siriana e pensò la politica come una continua lotta (Kampf) per la realizzazione della nazione (Volk)
  •  Constantin Zureiq (1909-2000), autore di "Nationalism Consciousness" del 1939, e "The Meaning of the Nakba" del 1948, due dei documenti politici più influenti del mondo arabo del XX secolo. I suoi scritti riecheggiano il tono e la struttura de "Il tramonto dell'Occidente" di Oswald Spengler; il suo appello era per una rivoluzione completa nello spirito, nell'educazione e nella coscienza araba. Il futuro, avvertiva, apparteneva a coloro che avrebbero potuto dominarlo attraverso la volontà, il sacrificio e la lotta.
  • Hassan al-Banna (1906-1949), allievo di Rida e fondatore dei Fratelli Musulmani nel 1928, che costruì una nuova teologia politica in cui l'Islam divenne il principio organizzatore della totale trasformazione sociale tramite la mobilitazione di massa, guidata da un'avanguardia d'élite. Per Banna, l'Islam era un sistema totale – che comprende politica, economia ed etica personale – come nelle ambizioni totalizzanti dei sistemi marxisti e fascisti dello stesso periodo. L'Islam, in questa concezione, non era più un corpus di giurisprudenza ereditata, ma un progetto metafisico di salvezza politica.
  •  Sayyid Qutb (1906-1966), profondamente influenzato dalla cultura e dalla poesia tedesca, di cui fu studioso, nel 1944 iniziò a scrivere analisi letterarie dei passi coranici ispirandosi all'estetica romantica di Goethe e Schiller e al movimento simbolista della Francia tra le due guerre. Nei primi anni Cinquanta scrisse "All'ombra del Corano", grandiosa teoria dell'islamismo. Qutb lesse il Corano come un testo simbolico totale, trasformò le scritture islamiche da legge divina a un cosmo morale immanente che esigeva una realizzazione rivoluzionaria. Nel manifesto del 1964, "Pietre Miliari", immagina un'avanguardia moralmente purificata, spiritualmente eletta e storicamente destinata a innescare una rottura rivoluzionaria tramite il jihad. L'appello al jihad non è un ritorno a un precedente storico, ma una sua ri-creazione rivoluzionaria radicata nel marxismo-leninismo.

Negli anni Quaranta e Cinquanta nel mondo arabo era molto diffusa anche l’ideologia marxista. Ogni paese arabo aveva un partito comunista locale, composto da studenti, intellettuali e lavoratori urbani. Il Partito Comunista Iracheno divenne il più grande del mondo arabo, svolgendo un ruolo significativo nella politica urbana e nell'organizzazione sindacale. In Egitto, i movimenti comunisti locali crebbero accanto agli islamisti e ai nazionalisti, fino a quando non furono repressi dal regime di Nasser. In Libano e Siria, i partiti comunisti strinsero alleanze con gruppi nazionalisti e islamisti, creando ideologie ibride che combinavano la sinistra laica con una missione di civiltà romantica. La vita intellettuale araba non ruotava più attorno alla traduzione delle idee europee in termini locali, ma aveva creato una propria visione della tradizione filosofica tedesca. E un ruolo centrale nel loro credo era svolto dalla Palestina: non più solo un territorio, ma il crogiolo della storia sacra, la prova della verità morale e l'obiettivo di una guerra redentrice. Erano idee seminate dai nazisti. Ancor prima dell'inizio della guerra, la Radio Araba di Berlino trasmetteva propaganda nazista in Medio Oriente, incitando gli arabi a ribellarsi al dominio britannico e annunciando un'apocalisse. Messaggio emblematico: che il mondo stava crollando, che il sionismo era un nemico occulto, che la rivoluzione era un sacro dovere. L'aspirazione nazista alla purificazione storica, alla guerra redentrice e alla necessità morale della lotta furono tradotte in termini arabi comuni, grazie a figure come Hajj Amin al-Husseini, ex Gran Mufti di Gerusalemmei.

Il colpo di stato del 1952 in Egitto catapultò Nasser al potere, e con lui la nuova dottrina del socialismo arabo che fondeva il marxismo con il nazionalismo e una sete di redenzione quasi religiosa. Con grandiosità retorica, egli invocava Rivoluzione, Volontà, Nazione e Storia come forze sacre animate dallo spirito del popolo. "Storia e Rivoluzione sono entrate in questa sala prima di noi; entrambe desiderano contemplare questo glorioso nuovo scenario su cui tutti gli occhi sono oggi puntati", scrisse. Il nasserismo divenne di fatto l'ideologia di stato in gran parte del mondo arabo, in particolare tra il 1956 e il 1967.

Per la prima volta emerse una politica di massa in Medio Oriente. Dalla fine degli anni Quaranta fino agli anni Sessanta, istituzioni della modernità come i giornali, i libri di largo consumo, le scuole pubbliche e la televisione furono create non da una borghesia (come era avvenuto in Europa da oltre un secolo, ma dagli stati stessi. Erano quindi impregnate delle ideologie ufficiali dei nuovi stati postcoloniali. Non si trattò di un caso storico. La decolonizzazione araba fu guidata da rivoluzionari con una visione ideologica della Storia, armati di dialettica, del linguaggio della liberazione e del sostegno sovietico. Salirono al potere nel momento in cui i contadini arabi e i poveri delle città venivano integrati per la prima volta nella cultura nazionale e si stava costituendo la società araba di massa. Mentre in Occidente la cultura di massa si è sviluppata nel corso dei secoli, parallelamente all'emergere della sfera pubblica, in Medio Oriente essa è giunta improvvisamente dall'alto verso il basso. La modernità ideologica ha creato il pubblico arabo stesso attraverso l'istruzione, i mass media, le istituzioni statali e la formazione educativa. Ai bambini arabi veniva insegnato a leggere usando trattati socialisti, slogan nazionalisti e opere come il Mein Kampf e i Protocolli dei Savi di Sion.

I nuovi regimi mobilitarono la storia, l'arte, la letteratura, il cinema, la musica e i rituali pubblici al servizio della rivoluzione. I ministeri dell'informazione, della cultura e della guida nazionale, spesso istituiti con l'aiuto di fuggitivi nazisti, supervisionarono la formazione ideologica. L'intellettuale, l'artista e il regista sono stati al servizio del sistema statale.

In Egitto film come Al Nasser Salah al-Din (1963), prodotti sotto la supervisione dello stato, presentavano la storia islamica medievale come allegoria della resistenza anti-occidentale e contro gli ebrei. Ma tutta la cultura dell’epoca fu una militante re-interpretazione della storia islamica in veste anti-occidentale e antisemita. Anche Umm Kulthum, regina incontrastata della canzone classica araba, fu reclutata nel progetto nazionale, che mescolava folklore e ideologia. La letteratura per l'infanzia, le produzioni teatrali e i libri di testo furono riscritti per rispecchiare la narrazione sacra della rivoluzione. Come dichiarò esplicitamente Nasser, la rivoluzione non mirava semplicemente a riformare la società, ma a creare un nuovo uomo arabo – così come Hitler aveva voluto formare l’uomo nuovo ariano.

Ma la religione non fu rinnegata, come in URSS. Maometto fu reinterpretato dalla cultura araba degli anni ’60 come il prototipo del rivoluzionario che sfidò un sistema ingiusto, costruì uno Stato e determinò una trasformazione sociale totale. Il risultato è stata una trasformazione dell'Islam stesso: non più un sistema di comando divino, ma un progetto mondano. Le tradizioni e le biografie profetiche furono reinterpretate come simboli dello Stato arabo e della sua eterna lotta contro la triade di nemici: reazione, sionismo e imperialismo. La Rivelazione divenne storia. Il Jihad divenne rivoluzione.

Verso la fine degli anni '60, la cultura araba era stata quasi totalmente politicizzata: ogni romanzo un sermone, ogni poesia una chiamata alle armi, ogni canzone una marcia militare, ogni film una teologia della lotta. E questa cultura, più di ogni altra cosa, ha plasmato la visione del mondo dell'arabo moderno. Persino l'architettura delle città arabe è stata mobilitata: monumentali edifici socialisti, musei della resistenza e statue rivoluzionarie rappresentavano l'ideologia dello Stato. La presa della politica radicale sugli arabi di oggi non è il prodotto di un risentimento primitivo o di un complesso di inferiorità collettiva. È piuttosto la conseguenza di una specifica formazione storica. L'arabo moderno non è un erede passivo del pensiero radicale; ne è il figlio.

La vittoria israeliana nella guerra del 1967 fu un grave shock non solo per i regimi arabi i cui eserciti furono sconfitti, ma per i loro stessi fondamenti ideologici. La Guerra dei Sei Giorni non significò solo il fallimento dei regimi rivoluzionari in Egitto e Siria nel raggiungere i loro obiettivi strategici, ma il tradimento della storia stessa. La sconfitta avvenne proprio mentre si affermava un nuovo movimento rivoluzionario internazionale fondato sul terzomondismo, sull'ossessione per l'autenticità culturale e sulla rivolta giovanile che divenne nota come Nuova Sinistra. Non era più l'epoca di Stalin e del Comintern, ma di Che Guevara, Mao Zedong, delle Pantere Nere, dei Viet Cong e delle rivolte studentesche parigine. In America Latina, Africa, Asia e Medio Oriente, la rivoluzione non era più una dottrina monopartitica del proletariato industriale; Era un teatro di miserabili, una rappresentazione di violenza redentrice da parte di coloro la cui sofferenza era stata elevata a principio storico: Cristi con gli AK-47. In questo nuovo panorama ideologico, il movimento nazionale palestinese emerse non semplicemente come un'altra causa anticoloniale. Si trovava al presunto punto di incontro tra sionismo, imperialismo e ingiustizia globale. Di conseguenza, la Nuova Sinistra araba – e con essa gran parte della Nuova Sinistra globale – giunse a concepire la Palestina come il centro morale del mondo.

(…) Per la sinistra occidentale e non araba, la Palestina offriva qualcosa di ancora più profondo: uno specchio morale. Il combattente palestinese, privato della sua patria, della sua storia e del suo potere mondano, divenne l'incarnazione di una vittimizzazione universale redentrice che poteva sacralizzare la violenza e trasformare l'odio in un mezzo di redenzione universale. Qui, l'influenza di Frantz Fanon fu decisiva. La famigerata prefazione di Sartre a "I dannati della terra" di Fanon, santificando la vendetta come rinascita spirituale, diede licenza a un'intera generazione di vedere la brutalità come una forma di verità. Il sionismo fu presentato come un antagonista trans-storico: non più il progetto politico di un popolo in esilio, ma la forma ultima del male coloniale, la distillazione di bianchezza, capitalismo e tradimento storico. In questa nuova economia simbolica, l'antisemitismo rientrò nella vita politica non come un'ideologia reazionaria, ma come una virtù, l'unica possibile posizione di solidarietà con gli oppressi. La rivoluzione palestinese finì così per funzionare come un rito universale di purificazione politica: un teatro in cui altri potevano rivivere i propri traumi, purificarsi dalla propria colpa storica e rinascere a immagine degli oppressi.

Non credo sia esagerato affermare che la visione sociale della leadership palestinese – soprattutto nelle sue fazioni laiche e marxiste – deve più al modello di mobilitazione armata di Debray che a qualsiasi altro scrittore arabo, medievale o moderno. Il campo profughi sarebbe diventato la cellula guerrigliera; la moschea, l'unità di propaganda; la scuola, il campo di addestramento; il popolo, l'esercito rivoluzionario. Era il radical chic, non la giurisprudenza islamica, a istruire ragazzi palestinesi denutriti e semianalfabeti nei rituali del martirio e del sacrificio. La tragedia non è solo che questo fu scambiato per autenticità, ma che fu salutato, nelle università da Beirut a Parigi alla Colombia, come l'apice della rettitudine morale.

Alla fine degli anni '70, la speranza di una nuova rivoluzione cedette il passo alla disillusione, alle guerre civili e alla repressione. Ne seguì una crisi d'identità sempre più profonda. Se la Storia era una menzogna, dove poteva l'uomo trovare un significato? Coloro che erano afflitti da questa crisi spirituale smisero di chiedersi "Dove sta andando la storia?" e iniziarono a chiedersi "Da dove vengo?". L'ex marxista egiziano Tariq al-Bishri riassunse questo sentimento in una conferenza del 1980 sul nazionalismo arabo e l'Islam a Beirut: "Se il progresso mi rifiuta come popolo, non lo sostengo. E se il progresso [storico] mi schiaccerà ed esilierà come popolo, allora andrò dall'altra parte".

Gli intellettuali arabi si allontanarono dalla Storia, cercarono qualcosa di incontaminato dall'imitazione dell'Occidente, e lo trovarono nell'Islam. Ma questo non fu un ritorno alla tradizione islamica in senso sostanziale. Si trattò piuttosto di una svolta interiore, verso un sé purificato. Il ritorno dell'Islam fu di fatto un'adesione all'Islam così come costruito dai regimi rivoluzionari, non alle usanze di nonni e bisnonni. Questo nuovo movimento doveva più al postcolonialismo che alla tradizione islamica, e scaturì dalla stessa fonte che alimentò la svolta americana verso la politica identitaria.

Il termine più importante della cultura araba post-1973 è turath, o eredità. Gli islamisti e altri interpretavano turath in termini heideggeriani come segno di autenticità mistica. Feticizzavano turath come l'opposto dialettico della modernità (hadatha). Così, gli araldi del ritorno alla tradizione hanno reintrodotto nella religione, inconsapevolmente, i concetti del radicalismo arabo laici. La loro visione dell'Islam si basava sul simbolismo islamico politicizzato dei regimi laici che rifiutavano.

L'islamista non era, in origine, un tradizionalista. Ciò che cercava non era il ripristino della pre-rivoluzione, ma una continuazione della saga della salvezza politica rivoluzionaria, ora intesa nel linguaggio esistenziale dell'appartenenza. La critica islamista dell'alienazione, della decadenza occidentale, della frammentazione storica, riecheggiava la diagnosi heideggeriana della modernità come oblio dell'Essere. Il progetto islamista non riguardava un ritorno alla Sharia, ma la sacralizzazione di un mondo purificato, un progetto esistenziale per recuperare l'essenza dell'io e della civiltà musulmana.

La verità stessa è stata ridefinita: non era più fondata sulla rivelazione, né sulla ragione, è diventata una funzione dell'identità. L'islamista ha molto in comune con i postmodernisti di ogni tipo, la cui visione del mondo è nata dal crollo delle ideologie di sinistra. Il sacro è ciò che è nativo, l'autentico ciò che può essere contrapposto al moderno, allo straniero, all'Occidente, anche se inventato ieri. In questa trasformazione si è persa l'intera struttura del significato religioso tradizionale. (…) Che si trattasse di islamisti, post-sinistra o nazionalisti culturali, quasi ogni progetto ideologico nel mondo arabo negli anni ’80 ha iniziato a parlare il linguaggio vuoto dell'identità.

Questo passaggio dalla storia all'identità ha cambiato il panorama della violenza politica araba. Come quelli dei fanonisti, gli ideali dei nuovi radicali, laicisti e islamisti, esigevano spargimenti di sangue. Negli anni '70, le organizzazioni militanti palestinesi – in particolare quelle del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – divennero l'avanguardia globale di questa nuova estetica della violenza. Dirottamenti, attentati e uccisioni di massa di civili divennero atti di comunicazione, pensati per annunciare la presenza di un popolo attraverso la messa in scena della morte. L'aereo divenne un palcoscenico; la vittima, un simbolo; il martire, un sacramento. Lo spettacolo era il messaggio. Gli emissari del FPLP marxista-leninista nei campi profughi palestinesi dissero chiaramente ai giovani che cercavano di reclutare: "Non vogliamo persone che vogliono morire per il Paradiso, vogliamo persone che moriranno per la Rivoluzione". Era solo questione di tempo prima che nuovi concorrenti promettessero anche il Paradiso.

In nessun luogo questa logica simbolica esplose con maggiore violenza che in Libano. La sinistra libanese (…..) non cercava di riformare la società; cercava di farla esplodere, di dissolvere il suo ordine confessionale e la sua cultura borghese nel fuoco del divenire rivoluzionario. Quando i movimenti armati palestinesi (….) entrarono in Libano con armi, campi di addestramento e la loro guerra di liberazione, non destabilizzarono una società stabile; completarono la rottura rivoluzionaria che i suoi stessi intellettuali avevano già avviato. Il risultato fu una guerra civile totale (…..) una lunga serie di disastri che sarebbero culminati nella Primavera araba.

I movimenti islamisti sorti dalle macerie della guerra in Libano sono nati dalle rovine di organizzazioni di sinistra. Militanti disillusi che un tempo avevano letto Fanon e Lenin si sono ora rivolti a Sayyid Qutb e al Corano, non come studenti di teologia, ma come cercatori di una nuova purezza ideologica. (…) La rivoluzione islamica in Iran cristallizzò questo cambiamento. Non fu una riaffermazione conservatrice della tradizione, ma una sintesi ideologica totale di moderna tecnica rivoluzionaria e linguaggio simbolico islamico. Come i suoi predecessori di sinistra (e fascisti), Ruhollah Khomeini costruì la sua ideologia sulla leadership carismatica, la lotta storica, la violenza simbolica, la sacralizzazione della politica e la purificazione dell'io volontario attraverso l'azione rivoluzionaria, e la tradusse in forma islamica.

In tutto il mondo sunnita si svilupparono dinamiche simili. I Fratelli Musulmani, a lungo marginali, divennero sempre più militanti nell'ethos e apocalittici nei toni. Le sue ramificazioni, di cui Hamas e al-Qaeda erano le più importanti, si sarebbero evolute in movimenti jihadisti il ??cui linguaggio era islamico ma il cui contenuto abbracciava lo stesso nichilismo rivoluzionario dei suoi predecessori laici: una politica di identità totale e una visione apocalittica della storia in cui la salvezza andava oltre la misericordia.

Il jihadismo, (…) è cresciuto dalle macerie di un fallimento politico, intellettuale e sociale. (…) Il suo sogno era un atto finale di vendetta cosmica: l'Islam come apocalisse. La sua dottrina era principalmente teatrale, come si può vedere nei video registrati dagli attentatori suicidi palestinesi prima di partire per raggiungere il martirio. Non richiedeva coerenza, ma solo spettacolo, e questo era particolarmente vero per lo Stato Islamico, che sembra essere il punto di arrivo della logica dell'islamismo (….) metteva in scena la fine di un mondo con grandiosità operistica: il califfato nel deserto, le donne schiavizzate, le bandiere nere, le decapitazioni davanti a un pubblico globale. Era un teatro rituale post-politico, una risposta al collasso della modernità, una liturgia sacrificale di rinascita simbolica attraverso la distruzione. (…) L'attentatore suicida è più di un soldato sacrificabile; è l'eroe nell'atto finale di una tragedia cosmica. La sua morte è di per sé una liberazione da un mondo senza senso. E così la bomba diventa l'ultimo sacramento. Il suo obiettivo non è restaurare il califfato, ma purificare il mondo attraverso il fuoco e, in caso contrario, punirlo. (….) Non offre alcuna legge, alcuna comunità, alcuna teologia: solo mito, sangue e spettacolo.

Anche l'Occidente è passato dalla verità alla narrazione, dalla storia al trauma, dalla politica all'identità, e sempre più al nichilismo. Anch'esso ha visto il vocabolario morale scivolare nell'incoerenza e i rituali pubblici deteriorarsi in spettacoli. Anche noi parliamo il linguaggio dell'autenticità, del risentimento e della purificazione; anche le nostre università sono sopraffatte da una missione politica che trasforma la storia. La sinistra occidentale applaude Hamas, Hezbollah, gli Houthi, l'Iran e i nostri assassini in casa in nome del progresso e della giustizia. Il professore radicale occidentale che ammira un combattente di Hamas può essere un "utile idiota", ma bisogna dargli ragione: capisce giustamente che hanno qualcosa in comune. (….) Le ideologie che un tempo organizzavano la vita moderna – nazionalismo, marxismo, islamismo, liberalismo – non sono state tanto confutate quanto esaurite. Il loro meccanismo concettuale si è rotto. Eppure, continuiamo a vivere tra le loro rovine, pensando in base a questi concetti senza crederci.

Questo è ciò che significa vivere dopo Babele. Le torri dell'ideologia sono cadute, ma le lingue che hanno disseminato rimangono. Persino la religione, che un tempo prometteva la trascendenza, ora si presenta fin troppo spesso non come rivelazione ma come performance (….). Dobbiamo quindi sperare che alcune persone coraggiose in Occidente, così come alcune persone coraggiose in Medio Oriente, inizino a ricostruire. A stare come Abramo nel midrash, tra le rovine degli idoli di suo padre, non per distruggere per il gusto di distruggere, ma per discernere ciò che deve essere distrutto per preservare ciò che è eterno. Se c'è speranza, risiede nel recupero di un linguaggio che non si limita a descrivere il mondo, ma lo lega a un ordine superiore. Dopo Babele, non si torna indietro. Ma potrebbe esserci ancora una via d'uscita.

Gli intellettuali arabi si allontanarono dalla Storia, cercarono qualcosa di incontaminato dall'imitazione dell'Occidente, e lo trovarono nell'Islam. Ma questo non fu un ritorno alla tradizione islamica in senso sostanziale. Si trattò piuttosto di una svolta interiore, verso un sé purificato. Il ritorno dell'Islam fu di fatto un'adesione all'Islam così come costruito dai regimi rivoluzionari, non alle usanze di nonni e bisnonni. Questo nuovo movimento doveva più al postcolonialismo che alla tradizione islamica, e scaturì dalla stessa fonte che alimentò la svolta americana verso la politica identitaria.

Lascia un commento

Vuoi partecipare attivamente alla crescita del sito commentando gli articoli e interagendo con gli utenti e con gli autori?
Non devi fare altro che accedere e lasciare il tuo segno.
Ti aspettiamo!

Accedi

Non sei ancora registrato?

Registrati

I vostri commenti

Per questo articolo non sono presenti commenti.