George Friedman sull’immigrazione

16/06/2025

Estratto da un articolo per GPF dell‘11 giugno 2025

 

È una peculiarità della vita americana che gli immigrati e i loro discendenti (cioè quasi tutti gli americani) conservino un certo affetto per i luoghi che hanno lasciato. È strano perché, per la maggior parte, la vita nei paesi che hanno lasciato alle spalle era tanto spiacevole da spingerli ad andarsene. Eppure anche dopo più generazioni gli immigrati provenienti dall'Irlanda o dall'Italia provano affetto per l’antico paese.

Mia madre e mio padre sopravvissero ai campi di concentramento di Hitler, mentre mia sorella, di 11 anni più grande di me, fu ospitata nell'ambasciata svizzera. Era raro che un nucleo familiare sopravvivesse, ma il mio sì. La mia nascita nel 1949 fu sentita come la ‘nostra’ vendetta su Hitler. Lui era morto, ma noi continuavamo. Per me fu una responsabilità da saper gestire.

Sei mesi dopo la mia nascita, mio padre fu avvisato che sarebbe stato arrestato dalle autorità sovietiche e dai compagni ungheresi in quanto anticomunista. L’ideologia fondamentale di mio padre era che la vita fosse meglio della morte, così fuggimmo dall'Ungheria. I miei genitori assoldarono dei contrabbandieri che una notte ci portarono su un gommone attraverso il Danubio fino alla Cecoslovacchia, anch'essa sotto il controllo sovietico, e poi a Vienna. Fu un viaggio complesso e pericoloso, ma i genitori mi protessero dagli orrori di quel periodo e dovetti ricostruire i miei ricordi molto più tardi.

Al nostro arrivo a Vienna, fummo portati in un luogo gestito da un'organizzazione benefica americana – un miracolo ed un ricordo indelebile. Gli americani prima ci offrirono un pasto, poi ci fecero fare il bagno e indossare abiti puliti, dopodiché fummo visitati da un medico che curò le ferite del viaggio. Poi ci diedero una stanza in cui vivere e ci tennero lì per oltre un anno. Gli Stati Uniti contingentavano il numero di immigrati che potevano essere ammessi ogni anno. In quell’anno vennero effettuati controlli sui nostri precedenti – anche se non so come potessero controllare i nostri precedenti tra le rovine dell'Europa di allora.

Limitare l'immigrazione era ed è necessario: c’è un limite al numero di persone con culture diverse che una nazione può gestire contemporaneamente. Che l'immigrazione sia essenziale per l'America è vero, che il ritmo a cui l'immigrazione deve avvenire ed essere gestita è altrettanto vero.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti accolsero innumerevoli immigrati europei – per generosità ma anche per interesse nazionale – in modo controllato e ponderato, con grande attenzione alle questioni di sicurezza e stabilità. Capisco perché abbiamo dovuto aspettare un anno per avere il visto. Sono grato che sia stato concesso. Nessuna nazione può semplicemente aprire le frontiere ai migranti e rimanere stabile.

Al termine dell'attesa, fummo imbarcati su una nave da trasporto della Marina statunitense e condotti a New York. Mio padre trovò subito lavoro come tipografo, lavoro che già faceva a Budapest, e trovammo un appartamento nel Bronx. Allora il Bronx era una pentola a pressione per gli immigrati, un luogo pieno di poveri provenienti da tutto il mondo. Era un posto difficile e anche pericoloso. Le sue scuole pubbliche furono spietate nel farci diventare americani. Ricordo che ci insegnavano a cantare inni cristiani (ne ricordo ancora alcuni). Non mi fece male ascoltare la storia del Natale. Sono rimasto ebreo, ma durante la scuola pubblica del '67 mi è stato sempre ricordato che questa era l'America e che la maggior parte degli americani era cristiana. Le scuole pubbliche erano state concepite per affrontare la realtà. Nove premi Nobel della mia generazione provenivano dal Bronx. Ce la cavammo bene e la gioia di essere in America non fu minata dalla consapevolezza che si trattava di un posto diverso e impegnativo. Sapevamo di essere in un posto nuovo e abbiamo mantenuto la nostra identità nonostante cantassimo "Onward Christian Soldiers". Gli immigrati nel Bronx non erano fragili e i nostri genitori ci ricordavano chi eravamo: stranieri in una terra straniera e meravigliosa. Il Bronx è stato doloroso, ma mi ha reso forte, mi ha negato il diritto all'autocommiserazione, mi ha dato il potere di essere ciò che volevo e mi ha insegnato la lezione più importante: questa è l'America, non l'Ungheria, e l'America non ammette debolezze o autocommiserazione.

Parlo da immigrato che non riesce a comprendere che cosa succede oggi nel Paese. Le uniche persone che possono affermare di provenire da famiglie native americane sono i nativi americani. Tutti gli altri sono arrivati ??qui e hanno avuto successo o hanno fallito grazie ai propri sforzi. Gli immigrati sono il cuore di questa repubblica e, date le preoccupanti tendenze demografiche, sono sempre essenziali. Ma il sistema deve limitare gli immigrati al numero che può essere gestito; deve integrarli in America con i loro ricordi passati ben custoditi, ma che non li definiscono più. Oggi la crisi dell'immigrazione è che le quote sono sparite, ed è sparita anche la pentola a pressione dell'assimilazione. Non è una ‘gentilezza‘ permettere agli immigrati di rimanere stranieri, invece di essere americani con tutti i loro ricordi, ma con il piacere di essere diventati altro. Non biasimo gli immigrati. Incolpo una ‘gentilezza’ fuori luogo che cerca di far pagare agli immigrati il prezzo del biglietto d'ingresso lasciandoli stranieri in terra straniera.

Venire in America per me e per la mia famiglia è stato un privilegio che prometteva molto e chiedeva molto. Osservo il caos a Los Angeles e mi rendo conto che abbiamo negato l'esperienza dell'immigrazione ai migranti di questa generazione. Abbiamo negato loro la pressione delle quote e il dolore e il piacere di diventare americani. Abbiamo bisogno di loro, come abbiamo bisogno di tutti gli immigrati i cui figli ora costituiscono l'America. Ma chi dice che non possiamo pretendere un cambiamento nell'animo degli immigrati è un sadico che finge di essere di buon cuore. Questa è un'agonia per tutti, e deve finire. Il mantenimento dell'America è sempre dipeso dall'immigrazione, e il dolore degli immigrati del Mayflower, il mio dolore di immigrato ungherese e il dolore dell'immigrato messicano sono il prezzo da pagare. Senza trasformare in americani quel flusso costante e controllato di immigrati, questo Paese non può prosperare.

Provo profonda compassione per i latinoamericani che sono stati indotti a credere che i nostri confini non significhino niente e che non dovranno subire l'angoscia dell'assimilazione in America. Gli eventi a cui assistiamo sono colpa di chi ha mentito loro invitandoli, senza spiegare che, seppur serbando il loro passato, ora devono subire il dolore che è il prezzo dell'essere americani. Conservate i vostri ricordi, ma apprezzate la nazione in cui vivete. A coloro che li hanno invitati e hanno mentito su ciò che avrebbero dovuto affrontare dico ‘non siete stati gentili, ma sconsiderati e persino sadici. Avreste dovuto saperlo, visto che anche voi siete immigrati o loro discendenti. La vostra è stata una falsa gentilezza.’

Questo non giustifica il trattamento riservato agli immigrati clandestini, il cui afflusso è stato ignorato o persino incoraggiato dalle amministrazioni precedenti. Ora nel ribaltare queste politiche si dovrebbe essere consapevoli dell’ambiguità della politica statunitense; trattarli come criminali è ingiusto, a meno che non siano colpevoli di qualcosa di più del crimine di essere qui. Dovrebbe esserci un profondo sentimento di gentilezza verso chi è stato indotto a credere che la porta fosse spalancata. Su questo il mio cuore è con gli immigrati. Sono stato ammesso negli Stati Uniti dall'amministrazione Truman. Anche se la successiva amministrazione Eisenhower considerava la mia ammissione un errore, non sono stato trattato come un criminale. A una politica sbagliata si dovrebbe rispondere con un sentimento di gentilezza verso coloro che ne sono vittime.

Sono nato ungherese, l'America mi ha dato una casa e mi ha imposto di diventare americano. Questo significava non dimenticare mai chi ero e non dimenticare mai chi sono diventato. Mia moglie nutre ancora un profondo affetto per l'Inghilterra e l'Australia, io per l'Ungheria. Ma siamo legati agli Stati Uniti, ai suoi doni e alle sue richieste.

 

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