Terrorismo: quando e perché

17/12/2023

Narrando l’attacco del 7 ottobre 2023, la BBC ha rifiutato di etichettare Hamas come gruppo terroristico, sostenendo che “terrorista” è un termine peggiorativo e non descrittivo. Il dibattito si è inasprito. “Definire qualcuno terrorista significa schierarsi e smettere di trattare la situazione con la dovuta imparzialità”, sostiene la BBC, evitando di evidenziare l’ovvia caratteristica delle azioni di Hamas: l’intento di terrorizzare i civili israeliani. Nel corso della sua esistenza Hamas ha costantemente preso di mira i civili. Per questo motivo i governi del Regno Unito e degli Stati Uniti, nonché l’UE, l’hanno designata come organizzazione terroristica. Rifiutando di riconoscere una palese caratteristica di Hamas e di gruppi simili, si corre il rischio di giustificare atti di spaventosa e gratuita crudeltà.

Il problema non è nuovo. Qualcuno tende sempre a ricordare che “chi è terrorista per alcuni è il combattente per la libertà di altri”. Dipende se si guarda alla motivazione o all'atto. Ma guardare l'uno senza l'altro distorce il quadro: la violenza potrebbe essere spiegata o addirittura giustificata dalla causa, ma la causa può essere compromessa dalla violenza. I governi insistono sul fatto che non parleranno mai con i terroristi, ma dietro le quinte lo fanno.

L’etichetta di terrorista è appioppata spesso a caso. Le definizioni sono state a lungo problematiche. Vladimir Putin condanna regolarmente i suoi avversari ucraini come terroristi, sebbene siano impegnati nell’autodifesa ed è proprio la Russia a prendere di mira le strutture civili.

Il terrorismo è essenzialmente una tattica che potrebbe servire a una serie di scopi politici o a un solo scopo: la punizione di chi è considerato nemico. L’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) scrive: ’Il terrorismo implica l’intimidazione o la coercizione di popolazioni o governi attraverso la minaccia o la perpetrazione di violenza, causando la morte, lesioni gravi o la presa di ostaggi’. Prosegue osservando che per i singoli Stati le definizioni di terrorismo sono discrezionali e spesso sufficientemente ambigue da consentire “politiche e pratiche che violano le libertà fondamentali degli individui e delle popolazioni e discriminano particolari gruppi”.

Considerate tutte le questioni politiche e di definizione che circondano il termine, è comprensibile il motivo per cui molti preferirebbero non usarlo affatto.

Dietro ogni atto di violenza intrapreso per scopi politici si può trovare in agguato una teoria strategica. La questione non è soltanto se questi atti di violenza possono essere giustificati, ma se possono raggiungere i loro scopi. La maggioranza degli atti che potrebbero essere etichettati come terrorismo sono isolati e di basso livello, forse riflettendo correnti sotterranee di malcontento e indignazione. Possono avere un impatto significativo a breve termine, soprattutto se lasciano un numero elevato di morti e feriti, ma hanno un impatto limitato a lungo termine, a meno che non possano rafforzarsi a vicenda in modo sufficiente da generare una campagna sostenuta.

Il terrorismo che attira maggiormente l’attenzione è quello condotto da gruppi organizzati, con intenti strategici, che dirigono la violenza contro i civili per far perdere alla popolazione la fiducia nei leader che dovrebbero provvedere alla loro protezione alla loro difesa. Gli atti di violenza vogliono creare un effetto psicologico per generare un effetto politico.

‘Terrorismo’ come termine politico si affermò con il ‘regno del terrore’ in Francia, quando i giacobini istituirono i loro tribunali rivoluzionari. Nel febbraio 1794 Maximilien Robespierre spiegò come le “molle del governo popolare nella rivoluzione” siano “la virtù e il terrore”. Sosteneva che i due devono funzionare in combinazione: senza la virtù il terrore è fatale, mentre senza il terrore la virtù è impotente. Alla fine il ruolo del terrore si allargò al punto che l'Assemblea nazionale fu tanto allarmata da rivolgere il terrore contro lo stesso Robespierre, che venne ghigliottinato. I dittatori successivi – in particolare Josef Stalin e Saddam Hussein (che prese Stalin come modello) – si assicurarono che nessuno fosse in grado di lanciare alcuna sfida. Ciò richiedeva il terrore delle élite così come delle masse. Il terrore che attinge a tutte le risorse dello stato tende ad essere efficace perché può essere onnipresente e costante. Gli Ayatollah iraniani seguono anch’essi la lezione di Stalin.

C’è anche una tradizione di terrore rivoluzionario, in risposta al terrore di stato. Il Congresso Anarchico Internazionale, tenutosi a Londra nel 1881, descrisse il dovere di tutti i comitati nazionali di esplorare tutti i mezzi per l’annientamento di tutti i governanti, ministri di stato, nobiltà, clero, capitalisti di spicco. Il metodo preferito era l'assassinio, che veniva regolarmente praticato, per cui fino alla Prima guerra mondiale essere capo di stato o di governo divenne un'impresa piuttosto pericolosa. La strategia sottostante era indurre lo stato ad aumentare la repressione e il terrore, per accelerare l’esasperazione del popolo e accelerare l’avvento della rivoluzione.

Come strategia, il terrorismo infligge o minaccia violenza per produrre l’effetto psicologico del terrore, partendo dal presupposto che ciò porterà poi all’effetto politico desiderato. È una strategia intrinsecamente coercitiva. Cerca di creare circostanze in cui l’avversario accetta le richieste come unica via d’uscita da una situazione disperata.

Gli effetti più significativi della strategia del terrore derivano dalla ripetizione frequente degli atti terrorizzanti, che creano l’aspettativa di incidenti ancora più scioccanti a venire, fanno crescere la paura e la sfiducia nelle istituzioni. Una volta iniziata la campagna terroristica, scatteranno le contromisure, la società inizierà ad adattarsi allo stress e diventerà più difficile compiere altri atti terroristici. Il successo o l’insuccesso del terrorismo dipende sia dalla capacità di repressione dello stato, sia dalla capacità della società ad adattarsi.

La reazione della popolazione non può essere data per scontata. La capacità di reazione e di resistenza può venir sottovalutata dai gruppi terroristici. Al Qaeda riteneva che gli attacchi diretti al World Trade Center e al Pentagono avrebbero convinto gli Stati Uniti a ritirarsi immediatamente e completamente dal Medio Oriente. Erano imbaldanziti dal successo ottenuto in Afghanistan contro i Sovietici (grazie all’aiuto degli Stati Uniti) e dal successo della rivoluzione degli Ayatollah in Iran. Erano convinti che l’Occidente fosse pronto a cedere. Nei decenni successivi il terrorismo islamista puntò a fomentare la discordia civile per sgretolare il potere centrale degli stati, attaccando specifici gruppi etnici. A metà degli anni 2000 il ramo iracheno di al Qaeda cercò di fomentare una guerra civile prendendo di mira la comunità sciita e quasi ci riuscì.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre 23 sembra piuttosto mirato a rafforzare la solidarietà e il morale del gruppo, dimostrare che la resistenza continua, incoraggiare il reclutamento anche nelle aree controllate dall’ Autorità Nazionale Palestinese. Trasformare atti sporadici di terrorismo in guerriglia più ampia e organizzata, coinvolgendo altre forze. Per ora l’estensione del conflitto alla Cisgiordania non è c’è stata, per lo meno non in modo significativo. Se Israele riesce a mantenere il controllo e debellare Hamas, la strategia terroristica avrà fallito.

Come meccanismo coercitivo il terrorismo in gran parte fallisce. Può avere molte conseguenze e alcune di esse possono dare risalto e impatto al gruppo terroristico, causando miseria e turbamento tra le vittime. Dal punto di vista strategico l’impatto è in gran parte distruttivo: contribuisce a rompere le relazioni intercomunitarie, inserendo tensioni e sospetti nei tentativi di risoluzione dei conflitti e incoraggiando dure risposte da parte delle autorità. Raramente è costruttivo.

I veri combattenti per la libertà devono guardare ben oltre il terrorismo.

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