Contro-insurrezione
per sempre?

29/07/2013

La contro-insurrezione è un inferno. È faticosa, cara, non finisce mai, è soggetta a infiniti capovolgimenti ed esistono ben pochi parametri oggettivi per misurarne i progressi. Anche quando riesce, non porta a guadagnare qualche cosa, ma solo a evitare che la situazione peggiori. È una guerra senza parate e senza trionfi. Uno degli obiettivi principali in politica estera è proprio l’evitare situazioni in cui si debba far ricorso alla contro insurrezione. 

Sfortunatamente i leader politici e i loro consiglieri commettono regolarmente errori di valutazione, ogni tanto su larga scala. Si trovano dunque invischiati in situazioni difficili da gestire, con le truppe ormai sul terreno, e a questo punto la contro insurrezione sembra un’opzione possibile.

La contro-insurrezione significa certamente combattere dei guerriglieri, ma, in senso più ampio e in maniera più rilevante, significa riuscire a capire, grazie alla conoscenza del contesto, come  comportarsi con le popolazioni civili in situazioni non convenzionali.  

Fin dai tempi antichi la storia dei combattimenti di terra è, in misura significativa, la storia della contro insurrezione; e avremo ancora  contro-insurrezione in futuro, visto che le guerre sempre più tendono ad essere guerriglie.

L’ultimo secolo è pieno di casi di contro-insurrezioni che hanno avuto successo o che, perlomeno, hanno salvato una situazione che sembrava persa. Ne sono un esempio le tecniche innovative impiegate da ufficiali americani di medio rango nelle Filippine più di un secolo fa, o - ancora nelle Filippine, tra il 1950 e il 1954 – quelle dell’ufficiale dell’aviazione statunitense Edward Lansdale per sconfiggere la ribellione comunista del movimento huk. E di nuovo nelle Filippine meridionali,  sia nel 2003 che nel 2006, la contro-insurrezione ha lavorato ai danni dei militanti islamisti.

In Iraq tra il 2006 e il 2008 la contro insurrezione ha costituito un fattore minore nella diminuzione (da 140 a 5 al mese) del numero di autobombe a Bagdad, ma è stata preponderante invece nella riduzione del numero di episodi violenti nella provincia di Anbar (da 400 a 50 alla settimana). Secondo l’analisi del professor Richard H. Shultz Jr., della Tufts University, in Iraq i marines hanno scelto la contro-insurrezione semplicemente perché non esistevano valide alternative. Se avessero lasciato l’Iraq nel 2004, il numero delle vittime irachene causate dalla guerra civile sarebbe stato esponenzialmente più alto, paragonabile ai morti della crisi in Ruanda,  più che a quelli della crisi balcanica, con gravissime conseguenze umanitarie. Quindi i marines scelsero la contro-insurrezione, che ha implicato mettere al centro dell’attenzione la popolazione locale, acquisire una maggiore conoscenza della lingua e della cultura, esattamente come gli ufficiali americani avevano fatto nelle Filippine un secolo prima.

Nessuno ha sviluppato la dottrina della contro-insurrezione per il caso iracheno più di John Nagl, un ufficiale dell’esercito americano che ha scritto la tesi di dottorato a Oxford su questo tema. Nagl si è dedicato allo studio della contro insurrezione dopo aver prestato servizio nella Prima guerra del Golfo. In quell’occasione si rese conto che la superiorità dell’esercito statunitense nella guerra convenzionale lo rendeva immune da pericoli su quel versante, ma tutte le difficoltà future sarebbero state di natura non convenzionale e asimmetrica. Iniziò a studiare e comparare le truppe britanniche in Malesia e quelle americane in Vietnam, concludendone che l’esperienza coloniale britannica garantiva una grande conoscenza della cultura e della lingua dell’area, di cui la leadership militare americana non disponeva in Vietnam.

Circola un mito sulla contro-insurrezione: che chi la sostiene abbia appoggiato le guerre in Iraq e Afghanistan per poter applicare le teorie alla pratica. Ma Nagl era contrario alla guerra in Iraq e ha sostenuto la contro-insurrezione per lo stesso motivo per cui lo fecero i marines: perché la situazione in cui gli Stati uniti si erano cacciati non offriva altra scelta in quel preciso e critico momento.

La contro-insurrezione ha subito severe critiche dopo l’inconcludente guerra in Afghanistan. I marines hanno pacificato significative porzioni di territorio lavorando con le tribù locali, ma c’è profondo scetticismo riguardo i risvolti futuri, appena le forze americane si saranno ritirate, nel 2014.  Uno dei più strenui oppositori della contro-insurrezione è Bing West, che ne mette in luce le debolezze: la difficoltà per una forza straniera occupante di convincere la popolazione locale a stare dalla sua parte, contro combattenti appartenenti alla loro stessa cultura.

I sostenitori della dottrina della contro-insurrezione non possono negare questa spiacevole verità. Ma possono rispondere che gli stati si trovano prima o poi invischiati in situazioni simili a quelle dell’Iraq del 2004, dunque è meglio avere a disposizione una dottrina della contro-insurrezione  piuttosto che non averla. Il che non significa che la contro-insurrezione vada necessariamente preferita al ritiro: significa solo che esiste una possibile alternativa.

Gli scettici diranno che il semplice fatto di avere una dottrina della contro-insurrezione incoraggia gli Stati Uniti a esser coinvolti in posti e situazioni in cui non dovrebbero esserlo. Non sono d’accordo. L’impulso di fare qualcosa di utile per risolvere le situazioni in Libia e in Siria viene da una sorta di vocazione insita nella società americana, che ha cercato di migliorare il mondo attraverso la forza, e non dal fatto che qualcuno abbia un piano contro-insurrezionale nel taschino.

Ora più che mai gli Stati Uniti dovrebbero evitare avventure all’estero in cui sia richiesta la contro-insurrezione. Sapendo però che, poiché la guerriglia e l’insurrezione caratterizzano la guerra da migliaia di anni, possiamo ragionevolmente ritenere che sarà così anche in futuro.

A cura di Valentina Viglione 

 

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