Che fare
in Siria e in Iraq?

10/09/2014

L’otto settembre George Friedman offre al governo degli Stati Uniti e all’Occidente in generale il suo consiglio su che fare in Medio Oriente: qualche intervento simbolico per salvare la faccia, e poi indurre le tre potenze regionali – Turchia, Arabia Saudita e Iran – ad agire per riportare un po’ di ordine nella regione. L’Occidente dovrà poi badare a mantenere l’equilibrio fra queste tre potenze locali, in modo da evitare che una sola prenda il sopravvento. 

Ecco a grandi linee il filo del suo ragionamento. Sia in Siria che in Iraq i governi centrali hanno perso il controllo del paese, ma restano formalmente in carica. Entrambi i paesi sono spaccati da divisioni religiose e le religioni a loro volta sono spaccate al loro interno. In un certo senso le nazioni hanno cessato di esistere e i frammenti che le costituivano sono ora entità molto più piccole, eppure molto complesse.

C’è poi la questione dello Stato Islamico. Che fare?

Era inevitabile che la comunità sunnita irachena si ribellasse a Bagdad, dopo esser stata emarginata dal regime sciita di Nouri al Maliki. Il malcontento ha assunto questa forma particolarmente violenta perché i gruppi più conservatori della comunità sunnita non sono stati in grado o non hanno avuto la volontà di ribellarsi ad al Maliki. Ma la divisione dell’Iraq in regioni sciite, sunnite e curde esisteva ben prima dello Stato Islamico e il jihadismo era ben inserito nelle comunità sunnite da lungo tempo. Inoltre, anche se lo Stato Islamico è incredibilmente brutale, la sua crudeltà non è un fatto isolato nella regione. Il presidente della Siria Bashar al Assad e altri forse non hanno ucciso cittadini americani o caricato video di decapitazioni su Youtube, ma si sono certamente macchiati di crimini altrettanto feroci. A livello simbolico è indispensabile agire contro lo Stato Islamico, ma si sa che servirà a poco. Dato che lo Stato Islamico per certi versi opera come un esercito convenzionale, gli attacchi aerei lo metteranno in difficoltà, ma non basteranno certo a sconfiggerlo, perché lo Stato Islamico disperderà le proprie forze, togliendo agli attacchi aerei l’obbiettivo. Cercare di sconfiggere lo Stato Islamico distinguendo i suoi sostenitori dagli altri gruppi sunniti per poi eliminarli è una strategia votata al fallimento. Il problema della contro insurrezione è proprio quello di identificare gli insorti. Bisogna cercar di colpire lo Stato Islamico e i suoi leader, ma non ci si deve illudere che li indurremo ad arrendersi o a cambiare. Ormai sono parte della comunità sunnita e soltanto la stessa comunità sunnita può sradicarli. È decisamente meglio cercare di identificare i sunniti contrari allo Stato Islamico e fornir loro armi.

C’è rischio che emergano gruppi affiliati allo Stato Islamico anche in altri paesi. Ma l’Occidente non ha i mezzi per evitarlo: è il compito che spetta agli Arabi stessi, ai Curdi e agli Iraniani, soprattutto ai Turchi.

La Turchia sta emergendo come potenza regionale: la sua economia è cresciuta enormemente nell’ultimo decennio e il suo esercito è il più grande della regione. Ha un governo islamista, ma ben diverso dallo Stato Islamico, che infatti preoccupa molto i Turchi. Ankara teme che il gruppo jihadista possa diffondersi anche in Turchia e, soprattutto, teme che il suo impatto sul Kurdistan iracheno possa inficiare la politica turca nel lungo periodo, anche rispetto all’energia.

 Sauditi, Iraniani e Turchi debbono essere direttamente coinvolti. Se è chiaramente escluso il coinvolgimento degli USA, non potranno fare a meno di impegnarsi direttamente. Non potranno stare ad aspettare e rischiare che il caos travolga anche loro. L’esito della loro azione è impossibile da prevedere, ma è indispensabile che abbia inizio. È vero che i Turchi non si fidano assolutamente degli Iraniani, e poco dei Sauditi, e che altrettanto si può dire degli altri attori in gioco. Ne sgorgherà una competizione regionale tripartita, che gli Stati Uniti potranno gestire molto più agevolmente dell’attuale caos.

Obama ha cercato volontari tra i membri della NATO per costituire una coalizione contro lo Stato Islamico. Non è chiaro perché abbia pensato che i paesi della NATO – a eccezione della Turchia – siano disposti a impiegare risorse e uomini per contenere la minaccia. Una vera coalizione è quella i cui membri non hanno alternativa. Che agiscano in concerto o in competizione, sono comunque costretti ad agire perché l’inerzia non farebbe che metterli ulteriormente in pericolo. 

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