Le ambizioni di Erdogan
per la Turchia

15/08/2014

Da un articolo di Robert Kaplan e Reva Bhalla per Strategic Forecasting

Mentre l’Occidente non ha grandi idee né ambizioni politiche, Recep Tayyip Erdogan − primo ministro turco per un decennio e ora presidente della Turchia – sembra ribollire di ambizione. Forse l’unico altro leader con un dinamismo paragonabile è quello russo, Vladimir Putin, con cui l’Occidente ha difficoltà a rapportarsi. Erdogan e Putin sono ambiziosi perché agiscono in base a una chiara percezione delle condizioni geopolitiche dei loro paesi. Putin sa che la responsabilità di un leader russo è assicurare al suo paese una sorta di zona cuscinetto nell’Europa dell’Est e nel Caucaso.  Erdogan sa che la Turchia, per poter avere una qualche influenza in Europa, deve prima diventare una potenza considerevole in Medio Oriente. Il problema del Presidente turco è che la posizione geografica della Turchia, a cavallo tra Oriente e Occidente, offre altrettanti svantaggi che vantaggi.  Ma la sua strategia segue una logica storica e geografica ben precisa.

Bisogna risalire alla fine della Prima Guerra Mondiale.  Quando l’Impero Ottomano (assieme alla Germania guglielmina e all’Austria asburgica) fu sconfitto, con il Trattato di Sèvres del 1920 i vincitori mutilarono la Turchia, distribuendone territori e zone di influenza alla Grecia, all’Armenia, all’Italia, al Regno Unito e alla Francia. La Turchia reagì a questa umiliazione con il kemalismo, l’ideologia di Mustafa Kemal Atatürk (il soprannome “Atatürk” significa “Padre dei Turchi”), l’unico generale ottomano non sconfitto, che guidò la rivolta militare contro i nuovi occupanti per creare uno stato sovrano turco in Anatolia. La politica di Atatürk rinunciò alle aree dell’ex Impero Ottomano che non si trovavano in Anatolia, ma volle in cambio il riconoscimento di uno stato esclusivamente turco in Anatolia.  L’impianto multietnico dell’Impero venne smantellato; le minoranze non vennero riconosciute e i Curdi, per esempio, non furono più chiamati con questo nome, ma “Turchi delle montagne”. ll kemalismo introdusse l’uso dell’alfabeto latino al posto di quello arabo, anche a rischio di produrre alti livelli di analfabetismo; abolì i tribunali religiosi islamici e proibì alle donne di indossare il velo e agli uomini di portare il fez. Atatürk tentò dunque di riqualificare i Turchi come Europei (senza chiedersi se gli Europei li avrebbero visti come tali), al fine di riorientare la Turchia verso l’Europa, non più verso il Medio Oriente. L’ideologia kemalista era una chiamata alle armi, una reazione marziale al Trattato di Sèvres, paragonabile al neo-zarismo di Putin, reazione autoritaria all’anarchia della Russia di Boris Eltsin negli anni ‘90. Per decenni in Turchia Atatürk fu oggetto di un culto della personalità portato all’estremo: era considerato alla stregua di un semidio benevolo e protettivo. Il suo ritratto vegliava su ogni locale pubblico.

Tuttavia la ferma volontà di Atatürk di orientare la Turchia verso Occidente contrastava con la posizione geografica del paese, a cavallo tra Oriente e OccidenteFu Turgut Ozal, religioso turco con influenze sufi, divenuto primo ministro nel 1983, a elaborare una nuova politica. L’abilità politica permise a Ozal di sottrarre la politica interna e – più sorprendentemente – la politica estera al controllo dell’esercito turco, fortemente kemalista. Atatürk e gli altri ufficiali turchi dopo di lui consideravano la Turchia un’appendice dell’Europa, invece Ozal lanciò l’idea di una Turchia la cui influenza si estendesse in Asia dal Mar Egeo alla Grande Muraglia. Secondo Ozal, la Turchia non doveva scegliere tra Oriente e Occidente: essendo incastonata geograficamente tra i due mondi, doveva rappresentare politicamente entrambi. Da una parte Ozal riabilitò pubblicamente l’Islam, dall’altra sostenne in modo entusiasta il presidente americano Ronald Reagan durante la fase finale della Guerra Fredda. Il suo essere filoamericano e la sua accortezza nella gestione dell’establishment kemaliano resero accettabile anche la sua fervente religiositàOzal adoperò la cultura musulmana come base per avviare il processo di accettazione dei Curdi. L’allontanamento dall’Europa dopo il colpo di stato del 1980 permise a Ozal di siglare accordi economici con i Paesi orientali. Inoltre Ozal portò gradualmente la modernità ai musulmani dell’Anatolia centrale. Vent’anni prima di Erdogan, Ozal propose la Turchia come modello di Islam moderato nel mondo musulmano, sfidando il monito di Atatürk secondo cui le politiche pan-islamiche avrebbero indebolito il potere turco e avrebbero esposto il paese alla voracità di potenze straniere. Negli ultimi anni del governo Ozal si parlò per la prima volta di neo-ottomanismo.

La morte di Ozal nel 1993 inaugurò un decennio dissennato, caratterizzato da corruzione, inefficienza e indolenza dell’élite laica. In questo contesto Erdogan e i suoi seguaci musulmani stravinsero le elezioni parlamentari del 2002. Mentre Ozal faceva capo al Partito della Madrepatria, di centrodestra, Erdogan è l’esponente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, di tendenza più apertamente islamica, anche se ha moderato la sua visione negli ultimi tempi. La visione di Erdogan e quella di Ozal sono simili, in quanto entrambe auspicano un allontanamento dal kemalismo.  Al contrario di Atatürk, che si concentrava sull’esercito, Erdogan – come Ozal prima di lui − pone l’accento sul soft power, sui legami culturali ed economici, abbozzando un moderno ‘impero’ ottomano che fa da ponte fra il nord Africa, l’altopiano iraniano e l’Asia Centrale. Secondo l’interpretazione di uno dei grandi studiosi occidentali dell’Islam, Marshall G. S. Hodgson dell’Università di Chicago, la fede islamica fu in origine una religione di mercanti, che unì gli adepti nelle varie oasi stabilendo i principi etici da seguire nelle contrattazioni. Nella storia dell’islam i legami religiosi comportarono legami commerciali e protezione politica dal Medio Oriente sino all’India. Il modello medievale potrebbe applicarsi anche al mondo post-moderno.

Erdogan vuole proiettare il potere islamico moderato della Turchia sul Medio Oriente, ma si sta rendendo conto che è molto difficile, anche perché la Turchia non ha la capacità politica e militare di attuare la sua visione. La Turchia si impegna a fondo per ampliare i rapporti commerciali con l’Oriente, che però sono molto limitati se paragonati con gli scambi con l’Europa. La Turchia vuole aumentare la sua influenza nel Caucaso e nell’Asia Centrale facendo leva su affinità geografiche e linguistiche, ma è la Russia di Putin a esercitare l’influenza più importante sui quei Paesi. L’invasione russa in Georgia ha messo l’Azerbaijan, paese di cultura turca, in una posizione molto scomoda. In Mesopotamia l’influenza turca non riesce a contrastare quella dell’Iran, molto più vicino. In Siria, Erdogan e il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu hanno creduto – erroneamente – di poter formare un’opposizione sunnita moderata capace di rovesciare il regime alawita di al-Assad.  Erdogan ha guadagnato punti nel mondo musulmano con la sua ferma opposizione nei confronti di Israele, ma ha anche capito che questa scelta ha un prezzo: Israele si sta avvicinando alla Grecia e alla parte greca di Cipro.

La radice del problema è in parte geografica. La Turchia, bastione di montagne e altipiani, è un ponte di terra tra i Balcani e il Medio Oriente. Ma non ha importanza strategica per l’Iraq, che gravita sul Golfo Persico, accanto all’Iran. La lingua turca inoltre non può più utilizzare l’ alfabeto arabo per avere un peso culturale maggiore in Medio Oriente.

Inoltre la Turchia è internamente tormentata da conflitti con la popolazione curda, che compromettono i tentativi di ampliamento della sua influenza in Medio Oriente. Il sud-est turco è demograficamente dominato dall’etnia curda, che si sente parte della vasta regione curda divisa tra Siria, Iraq e Iran, non si sente turca. La guerra in corso in Siria potrebbe portare i Curdi siriani a unirsi ai Curdi radicali dell’Anatolia, mettendo ancora più in difficoltà la Turchia. La disgregazione de facto dell’Iraq ha costretto la Turchia a un difficile equilibrismo nei confronti delle richieste dei Curdi dell’Iraq del nord, il che ha ridotto il peso della Turchia nel resto dell’Iraq e, di conseguenza, le possibilità che aveva di contro-bilanciare l’Iran.

La Turchia vuole esercitare influenza in Medio Oriente, ma è troppo medio-orientale per potersi chiamar fuori dalle complessità della regione ed esercitare un’influenza accettata dalle varie parti in gioco.

Erdogan sa di dover risolvere il problema curdo in patria per poter ampliare la sua influenza sulla regione. Ha anche parlato di vilayet, parola araba di reminiscenza ottomana, che indica una provincia semi-autonoma, il che potrebbe accontentare i Curdi di Turchia ma al contempo potrebbe riaccendere l’opposizione dei nazionalisti turchi. Si tratta in ogni caso un importante passo simbolico verso il sostanziale annullamento del fondamento stesso del kemalismo, ovvero la rivendicazione di un’Anatolia esclusivamente turca. Considerando che Erdogan ha già fortemente ridotto i poteri dell’esercito – cosa che pochi ritenevano possibile dieci anni fa – non bisogna sottovalutare le sue ambizioni e le sue strategie. 

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