Se solo scomparisse Israele.
Georges Bensoussan spiega l’ansia antisemita che fermenta in Occidente

11/02/2024

“È in un contesto di uso militante della Storia che si inserisce la denuncia presentata dal Sudafrica contro Israele per crimini contro l’umanità a Gaza” scrive lo storico Georges Bensoussan su Le Point. “Oggi l’obiettivo è lanciare l’accusa di genocidio dal Sudafrica, che ha ospitato la conferenza di Durban nel 2001, per offuscare il crimine contro l’umanità iniziale da cui deriva l’attuale guerra, quello degli atti commessi il 7 ottobre 2023, la cui natura stessa era genocida. Un accesso di crudeltà, testimone non solo dei “costumi barbari” che avevamo già visto all’opera nel 1929 e nel 1948, ma anche di un piano per eliminare dal mondo un nemico che era stato privato, prima e dopo la sua morte, di qualsiasi carattere umano che lo legasse al nostro mondo. Da qui, la profanazione dei cadaveri, le decapitazioni e persino il “furto” della testa di un soldato, portata a Gaza e conservata in un congelatore con l’obiettivo di scambiarla in seguito per 10.000 dollari (sic).

In secondo luogo, si tratta di accusare di genocidio questo popolo in particolare, la cui memoria, in Israele come altrove, è segnata dal ricordo del genocidio. Invertendo l’accusa di genocidio, si vuole anche collocare lo stato di Israele e gli ebrei nel campo degli oppressori, cioè dell’occidente, l’accusato abituale delle Nazioni Unite. Il modo in cui queste ultime hanno accolto la denuncia del Sudafrica nega qualsiasi legittimità morale a queste maggioranze automatiche (57 stati musulmani nelle Nazioni Unite, un solo stato ebraico) che nel 2020, su 23 condanne emesse dall’Assemblea Generale contro gli stati, ne hanno emesse 17 contro lo stato di Israele. Questo ribaltamento della realtà è il carattere distintivo del ragionamento totalitario: “l’amore è odio”, “la pace è guerra”, quando la realtà viene annientata a favore di narrazioni ricostruite. Dietro Israele, l’emblema del male, l’inversione accusatoria pone l’intero occidente sul banco degli imputati del Tribunale della Storia di fronte agli “storici-procuratori”.

L’accusa di genocidio (di per sé grottesca: Gaza 1967, 400.000 abitanti, Gaza 2023, 2.300.000 abitanti) infanga la parola e la memoria degli armeni, degli ebrei e dei tutsi. L’odio per il segno ebraico fiorisce, e qui non si tratta tanto di antisemitismo, come nota lo psichiatra Jean-Jacques Moscovitz, quanto di quello che lui chiama asemitismo: il mondo non vuole gli ebrei. E non vuole più lo stato di Israele. In terzo luogo, per quanto folle possa sembrare l’accusa di genocidio, la logica intellettuale che la sottende non mira solo a cancellare la natura genocida degli atti commessi il 7 ottobre, ma a screditare l’occidente per far apparire la storia non occidentale come priva di violenza. Sarebbe un errore ridurre queste accuse di “genocidio” contro lo stato ebraico al solo ambito “decoloniale”. Anche i negazionisti dell’Olocausto in tutto il mondo hanno compreso la posta in gioco. In Francia, ad esempio, non passa settimana senza che il settimanale Rivarol (fondato da ex collaborazionisti) pubblichi titoli sul “genocidio di Gaza” o sulla “pulizia etnica della Palestina”. L’Iran, dove Robert Faurisson è stato accolto in pompa magna nel 2006, si è congratulato ufficialmente della denuncia sudafricana. Far condannare lo stato ebraico per genocidio: la posta in gioco è alta anche per coloro che negano il genocidio ebraico commesso dai nazisti. Il concetto di “genocidio” fu coniato durante la Seconda guerra mondiale da un ebreo polacco, Raphaël Lemkin, in diretto riferimento al genocidio degli ebrei che veniva perpetrato. I seguaci di Robert Faurisson sperano che Israele venga condannato in nome degli stessi princìpi che portarono Eichmann a essere condannato e giustiziato proprio da questo stato. Simbolicamente, l’obiettivo è cancellare l’eredità della Shoah.

 

Lo stesso schema mentale si ripete qui. È lo stesso che già nel 1937, con Céline (“Bagatelles pour un massacre”), faceva dell’“ebreo” il guerrafondaio. È lo stesso che oggi fa dello stato di Israele, decretato ultima “propaggine coloniale” dell’Europa, il vettore di una guerra genocida. È uno schema mentale che consiste nell’ostracizzare la “parte cattiva dell’umanità”, un tempo il popolo, ora lo stato, a cui si rimprovera di perseverare nel proprio essere. Qui abbiamo un popolo ebraico, un’“anomalia” nella teologia cristiana, e lì uno stato ebraico, un’“anomalia” nell’Europa post-nazionale. Insomma, gli ebrei sono sempre in controtendenza, e la causa contro di loro non è tanto per una politica quanto per un principio, la loro ostinazione a perseverare in un’esistenza statale condannabile perché anomala in nome di una Storia secolarizzata, ma pur sempre investita di fini ultimi. Stabilire un nesso causale tra una politica israeliana, qualunque essa sia, e degli atti di natura genocida, significa non comprendere la natura profonda di questa crudeltà quando si tratta di cancellare un’esistenza equiparata al male.

Perché non ci troviamo di fronte a un discorso guidato dalla ragione, ma a una visione escatologica in cui lo stato di Israele, qualunque sia la sua politica o la sua natura, laica o religiosa, rappresenta la personificazione del principio malvagio dell’umanità che deve essere cacciato dal mondo e da sé stessi per poter sperare in una vita finalmente degna di essere vissuta. Non c’è alcun legame tra una politica israeliana, anche la più riprovevole, e l’essenza genocida di un movimento islamista che non offre alcuna speranza di negoziazione o di compromesso, e non vede altro futuro che la distruzione definitiva dello stato di Israele. E non vuole altro che questo. Più il mondo è allo sbando, più le paure collettive vengono placate dall’antisemitismo unificante. Ci divertiamo a odiarci a vicenda e l’angoscia si riduce a indicare il responsabile di tutti i mali del mondo. Proprio come le paure collettive del passato, quelle nate sulla scia delle grandi epidemie o della caccia alle streghe nell’Europa del Diciassettesimo secolo. Ma dietro la follia collettiva, ci sono sempre uomini e donne fatti di carne e ossa, che non sopportano di essere considerati come l’incarnazione dell’eresia, della profanazione e dell’abiezione.

La studentessa ebrea di Bordeaux, il droghiere ebreo di Cracovia, l’ebanista ebreo di Rodi, l’insegnante ebreo di Amsterdam, il muratore ebreo di Atene e il medico ebreo di Colonia morirono tutti delle morti più orrende a causa di queste fantasie omicide. Il poeta palestinese Mahmoud Darwich era perfettamente consapevole di come la vecchia “questione ebraica” europea fosse diventata parte del discorso sul conflitto stesso, quando disse al poeta israeliano Helit Yeshurun: “Sai perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi siete il nostro nemico. L’interesse per la questione palestinese deriva dall’interesse per la questione ebraica. È a voi che sono interessati, non a me! Se fossimo in guerra con il Pakistan, nessuno avrebbe sentito parlare di me”.

L’ostracismo ossessivo di uno stato paria spiana la strada alla delegittimazione che precederà il suo smantellamento. La solitudine di Israele risuona nel cuore di un popolo poco numeroso, assediato dai nemici da oltre 75 anni, vittima di un logorio mentale che un giorno lo scuoterà nel profondo. Questa falsa potenza, la cui vulnerabilità è stata rivelata il 7 ottobre, potrebbe un giorno cedere sotto il peso di una guerra persa. Israele, ha detto Ben Gourion, vincerà tutte le guerre tranne l’ultima. I suoi nemici potranno sì subire una sconfitta dopo l’altra, ma continueranno a esistere anche dopo le sconfitte. Non lo stato ebraico. Afflitti dalla solitudine di ottobre, gli ebrei non possono permettersi il lusso del pessimismo. Come Israele non può permettersi il lusso di una sola sconfitta.

 

(Da un articolo de «Il foglio» del 5 febbraio 2024; traduzione dal francese di Mauro Zanon)

 

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