Verso una nuova forma di impero?

10/10/2016

Proponiamo un estratto dell’articolo di Jason Lopata e Ian Morris per Stratfor (The Rise of a Not-So-New Elite) perché ci pare offrire una visione condivisibile dell’evoluzione in atto nelle nostre società, se limitiamo lo sguardo alle società occidentali. Diversa è la struttura e la storia delle società che non hanno conosciuto lo sviluppo lento e parallelo della società industriale di massa, dello stato nazionale e del concetto di democrazia diretta. Perciò l’analisi di come sta cambiando la società contemporanea non ci pare pienamente applicabile alla Cina o all’India o all’Africa. Non tiene neppure conto di come può influire sulla storia del mondo la comunicazione globale istantanea, fatta di immagini, e l’accresciuta mobilità globale, che rende nuovamente possibile l’esodo di intere popolazioni da una regione all’altra, nonostante gli eserciti e le frontiere, come quello che è iniziato verso l’Europa negli ultimissimi anni. Tuttavia l’analisi ha una sua acutezza, che mettiamo a disposizione di chi ci legge.

Oggi ai vertici ci si sente un po’ soli, sostengono i due autori. Per 5000 anni si è pensato che nascere ricchi e potenti fosse la massima fortuna, ma ora tutto sembra essere cambiato. Nelle campagne elettorali essere ricchi e potenti (e magari anche abili) pare squalificare i politici. Trump dice che Clinton non può diventare presidente perché è sempre appartenuta all’élite politica, Clinton ribatte che Trump è ancora meno atto a governare perché appartiene all’élite economica, con una carriera iniziata prendendo a prestito 14 milioni di dollari da suo padre (“un piccolissimo prestito”, ha precisato Trump). In Italia i politici si accusano quotidianamente l’un l’altro di far parte dell’élite, di essere legati a ‘poteri forti’. Soltanto non aver mai ricoperto ruoli di qualche importanza pare legittimare le persone a governare. Che sta succedendo? È l’invidiosa reazione delle classi medie nel rendersi conto che oggi l’Occidente sta ridiventando un mondo fatto di padroni e di servi, affermano i due autori.

La società agraria

In Nazioni e nazionalismo, il filosofo e antropologo Ernest Gellner sostiene che la Rivoluzione Industriale ha spazzato via il vecchio ordine costituito da contadini, signori e sovrani. Gellner osserva che la struttura di quasi tutte le società premoderne, agrarie, può essere rappresentata da un semplice diagramma (vedi a lato) in cui le élite politiche, militari e religiose sono le fasce orizzontali poste al di sopra di una serie di fasce verticali parallele fra di loro, nettamente separate dalle fasce sovrastanti ma separate anche fra di loro, le quali rappresentano le comunità agricole delle varie regioni, separate da confini territoriali, etnici o religiosi, ma simili al loro interno. Gellner spiega che in questa struttura sociale, “la classe dirigente rappresenta una piccola minoranza della popolazione, rigorosamente separata dalla grande maggioranza dei produttori agricoli diretti, i contadini”. Ai vertici, i membri di qualsiasi élite politica, militare, religiosa sono abbastanza simili, ovunque essi si trovino, ma profondamente diversi dalle masse che governano. In questa struttura sociale tutto è volto al mantenimento di questa divisione, “la sua ideologia accentua più che minimizzare l’ineguaglianza delle classi e il grado di separazione del ceto dirigente”, ed è rafforzata anche dagli aspetti culturali, come i vestiti e la lingua parlata, al punto che aristocratici, nobili o borghesi non hanno niente a che vedere con il popolo, il volgo, i servi.

"Sotto la minoranza orizzontalmente stratificata al vertice” continua Gellner “c’è un altro mondo, quello delle piccole comunità, lateralmente separate, dei membri della società privi di qualsiasi specializzazione”, ovvero le comunità contadine. Gellner definisce queste comunità "lateralmente separate" perché i contadini vivevano perlopiù sempre all’interno. Per secoli, la maggior parte dei contadini non si è mai allontanata dal luogo di nascita. Nella società agricola ogni comunità contadina tende ad avere dialetti, rituali e tradizioni proprie: “vivono generalmente una vita tutta proiettata al loro interno e sono legate a determinate località da esigenze economiche, se non da imposizioni politiche”. Per le masse contadine, la distanza divide; ciò che accade al popolino in una parte dell’impero potrebbe non avere alcuna ripercussione sugli abitanti di un’altra regione dello stesso impero.

L’élite è stratificata all’interno tra militari, funzionari, religiosi e altre specializzazioni ma, a differenza dei contadini, le azioni di queste élite influenzano tutto l’impero o lo stato. Nella versione romana della società agricola, per esempio, un senatore, un giurista o un precettore influente poteva viaggiare dalla Gran Bretagna alla Siria, mangiare le stesse prelibatezze e discutere di Omero e Virgilio in ogni palazzo in cui veniva ospitato, usando la stessa lingua. I contadini, invece, se si allontanavano più di venti o trenta chilometri dal villaggio erano disorientati, si sentivano in un paese straniero.

 

L’eliminazione delle linee di separazione

Nel corso della storia quasi tutti i sistemi politici di successo furono imperi multietnici sviluppatisi per fusione di classi dirigenti, oppure tramite il rovesciamento violento di un’élite da parte di un’altra élite. Se i contadini potevano continuare a parlare la stessa lingua e adorare gli stessi dei, i cambiamenti al vertice non li toccavano. Lo stato agrario, spiega Gellner "si preoccupa solo di esigere le tasse, di mantenere la pace, e non molto di più, né ha alcun interesse a favorire comunicazioni laterali tra le sue comunità soggette”. Gli imperi agrari non erano interessati a costruire nazioni. Al contrario, nel XIX e XX secolo costruire nazioni era l’interesse primario. La Rivoluzione Industriale spazzò via le società agrarie nel giro di poche generazioni. L’enorme quantità di energia generata dai motori grazie ai combustibili fossili richiedeva una divisione del lavoro più sofisticata. "La produttività in continua crescita" sottolinea Gellner "esige che la divisione del lavoro sia non soltanto complessa ma anche in perenne, e spesso rapida, crescita”. Imparare in casa il lavoro degli avi non bastava più, bisognava imparare nuove competenze e trasferirsi dove c’era bisogno di manodopera. "L’immediata conseguenza di questo nuovo tipo di mobilità è un certo genere di egualitarismo” spiega Gellner. “La società moderna non è mobile perché è egualitaria, ma egualitaria perché mobile”. Un diagramma della società industriale sarebbe un rettangolo unico all’interno del quale le persone possono muoversi liberamente perché, come evidenzia Gellner: “una società destinata a giocare perennemente al gioco del cambio delle sedie non può erigere barriere (di rango di casta o di stato) tra le sedie”.

Verso la metà dell’Ottocento in Europa si verificò proprio questo. Il Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels dichiara: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile”. Se determinate convinzioni a proposito di religione, razza, casta, persino sesso, intralciavano l’espansione del mercato e l’accentuarsi della divisione del lavoro, queste andavano spazzate via. Questo nuovo tipo di mobilità esigeva un tipo di cultura nuovo. Nella società agraria pochi sapevano leggere e scrivere, l’istruzione serviva principalmente ad allargare l’abisso che separava le masse dalle élite. Nella società industriale invece, la cultura serve per unire la popolazione e creare una nazione. La società industriale necessita di “un addestramento prolungato e abbastanza completo, che insista su alcuni comuni requisiti: leggere, scrivere e fare di conto, attitudini al lavoro e al vivere sociale, familiarità con i fondamentali compiti tecnici e sociali”. Scrive Gellner: "Alla base dell’ordine sociale moderno non sta il boia, ma il professore. Non la ghigliottina, ma il doctorat d’état è lo strumento principale e il simbolo del potere dello stato. Il monopolio dell’istruzione legittima è adesso più importante, più decisivo del monopolio della violenza legittima”. La società agraria e lo stato-nazione sono agli antipodi. Gellner conclude: "La società agricola si impone, in generale, di essere stabile, quella industriale di essere mobile; l’una pretende di essere più stabile di quanto la realtà sociale permetta, l’altra vanta spesso più mobilità di quanto le sue costrizioni reali permettano, nella pretesa di soddisfare il suo ideale egualitario”. Ne deriva lo spettacolo vagamente assurdo del politico di turno che afferma che, nonostante la sua immensa ricchezza (Ross Perot nel 1992), nonostante appartenga a una dinastia politica (George W. Bush nel 2000), nonostante goda di entrambi i fattori (John Kennedy nel 1960), in realtà fa parte dell’unica squadra che conta – la classe media.

Nel XX secolo le società agrarie che rifiutarono di voltare pagina non poterono stare al passo con società che volevano cambiare. Tra il 1911 e il 1925 gli imperi multietnici ancora in piedi – la Cina dei Qing, la Russia dei Romanov, l’Austria-Ungheria degli Asburgo, la Turchia degli Ottomani e la Persia dei Qajar – crollarono, soppiantati da stati moderni, post-agrari. All’inizio degli anni Ottanta, quando Gellner scrisse Nazioni e nazionalismo, la lotta tra stati-nazione e imperi sembrava finita.

 

La rinascita dell’impero

L’avanzata della globalizzazione dopo il crollo dell’Unione Sovietica suggerisce che focalizzarsi sui singoli stati-nazione potrebbe non essere sufficiente per capire le attuali dinamiche sociali. Sembra che il potere stia passando dalle capitali nazionali a un’élite globale che parla la stessa lingua e vede il modo allo stesso modo, ma non ha un indirizzo fisico preciso. Il diagramma delle società agrarie imperiali potrebbe applicarsi anche ai tempi moderni, se vogliamo considerare l’organizzazione sociale dal punto di vista globale. Nella versione moderna dello schema, le élite connesse a livello globale stanno ai vertici, hanno più in comune con élite di altre nazioni che con i loro compatrioti e collaborano tra di loro per creare istituzioni globali che le avvantaggino. Invece la gente comune nelle varie nazioni ha relativamente poco in comune con altri cittadini in altri stati. La struttura della società agraria non è del tutto cambiata, è soltanto salita di livello. Oggi le élite superano il concetto di nazione e creano istituzioni sovranazionali.

Antonio Negri e Michael Hardt, autori di Impero, scrivono: “La sovranità ha acquisito una forma nuova, composta di una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti sotto una logica unica di governo. Questa nuova forma mondiale di sovranità è ciò che noi chiamiamo Impero”. Negri e Hardt ritengono che questo impero postmoderno amorfo, la cui élite proviene dal mondo della finanza, della cultura, della politica e dagli eserciti “non stabilisce centri territoriali di potere e non erge frontiere o barriere fisse. È un apparato decentralizzato e deterritorializzato di governo, che integra progressivamente lo spazio globale, tramite frontiere aperte e in perpetua espansione. L’Impero gestisce identità ibride, gerarchie flessibili e scambi plurali modulando le sue reti di comando. I colori nazionali nella mappa imperialista del mondo si mescolano nell’arcobaleno globale dell’Impero". All’interno dell’Impero, gli stati-nazione occupano una posizione equivalente a quella delle comunità lateralmente separate della società agricola: le persone comuni sono divise da barriere linguistiche, economiche e politiche dai membri di altre comunità lateralmente separate. Invece un banchiere di New York ha più cose in comune con un banchiere di Hong Kong o Francoforte che con i suoi compatrioti che sono agricoltori in Mississippi o operai in Michigan, così come un informatico di Hyderabad si intende meglio con partner della Silicon Valley o di Tel Aviv che con i contadini che vivono a pochi chilometri di distanza. Questo è il nostro nuovo/vecchio mondo: le élite globali si assomigliano, mentre l’operaio del Michigan e il contadino indiano sono lontani anni luce.

A questo punto le élite nazionali devono fare una scelta. Più di un secolo fa i Qing, i Romanov e altri sovrani tradizionali hanno dovuto decidere se mantenere la struttura imperiale o passare al sistema dello stato-nazione. Oggi le élite al potere si trovano di fronte a un bivio simile: restare fedeli alla propria nazione o abbandonare la nave in avaria e trovarsi un posto nella nuova élite transnazionale dell’Impero. In The National Interest Samuel Huntington sostiene che in questo nuovo ordine globale le élite che sono troppo legate agli affari nazionali hanno sempre meno possibilità di raggiungere i vertici in campo economico, accademico o culturale di coloro che superano questi limiti. “Chi rimane a casa rimane indietro”. Secondo Huntington chi passa all’Impero non ha bisogno di lealtà nazionale, considera anzi i confini nazionali come un ostacolo, si rallegra del fatto che stiano scomparendo e ritiene che i governi nazionali siano un residuo del passato, la cui unica funzione utile è facilitare le operazioni dell’élite globale. Come gli aristocratici dell’antica Roma, che viaggiavano molto, ma sempre all’interno dello stesso universo culturale, i membri dell’élite globale parlano la stessa lingua (l’inglese) e frequentano le stesse università. Viaggiano di continuo, socializzano nelle vip lounge degli aeroporti e negli hotel di lusso, scambiano pettegolezzi e battute con persone che leggono le stesse cose e aderiscono alle stesse teorie politiche ed economiche a favore della liberalizzazione del mercato. La linea che separa le élite cosmopolite dalle masse nazionali, lateralmente separate, è quasi altrettanto marcata nell’Impero globalizzato che nella società agraria di Gellner. Negli ultimi trent’anni si è andato formando un Impero postmoderno incredibilmente simile alla società che si credeva estinta.

Se sarà un bene o un male, resta da capire. Tra il 1910 e il 1980 nel mondo sviluppato si è ridotta la disuguaglianza dei redditi, è migliorata la qualità della vita, si è diffusa la democrazia, quasi tutti hanno raggiunto l’accesso all’istruzione e donne e minoranze hanno ottenuto pieni diritti. D’altra parte nello stesso periodo sono scoppiate due guerre mondiali e si è rischiata quella nucleare. All’apparire del nuovo Impero negli anni ’80 il trend positivo dei decenni precedenti ha subito una battuta d’arresto, ma il mondo è anche entrato in un’epoca di pace senza precedenti, è stato travolto da scoperte tecnologiche sensazionali e ha visto un miliardo di persone (perlopiù in Asia) uscire dalla povertà. In ogni caso sempre più persone – si pensi ai contenuti dei dibattiti presidenziali, alla Brexit, al rifiuto del globalismo – temono di venire declassate da cittadini portatori di diritti a produttori lateralmente isolati soggetti a una nuova élite imperiale. William Faulkner forse aveva ragione quando diceva “Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato”.

Sembra che il potere stia passando dalle capitali nazionali a un’élite globale che parla la stessa lingua e vede il modo allo stesso modo, ma non ha un indirizzo fisico preciso. Nella versione moderna dello schema, le élite connesse a livello globale stanno ai vertici, hanno più in comune con élite di altre nazioni che con i loro compatrioti e collaborano tra di loro per creare istituzioni globali che le avvantaggino.

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