La democrazia sopravvivrà al XXI secolo?

20/10/2015

Traduciamo una parte di un breve saggio di Ian Morris (foto a lato) apparso su Stratfor. Morris dapprima constata che in futuro sarà possibile calcolare costantemente il consenso su specifiche opinioni o opzioni in modo automatico, analizzando i messaggi che le persone si scambieranno in rete; constata inoltre che sempre meno cittadini vanno a votare nelle democrazie avanzate, perché delusi dai politici che li rappresentano. La storia, si chiede Morris, ci offre indicazioni sulla possibilità di sopravvivenza e di evoluzione a lungo termine della democrazia come sistema di governo? Segue il brano che traduciamo, perché presenta un punto di vista interessante. 

 

Fin dal 3000 a.C. quasi tutte le società complesse e strutturate si basarono sulla convinzione che un gruppo ristretto di persone avesse accesso privilegiato al divino. Dal regno del primo faraone egizio fino a quello di Luigi XIV ritroviamo la stessa credenza ripetuta e largamente accettata: poiché il re, insieme ai suoi sacerdoti, conosce il volere di Dio o degli dei, è perfettamente logico che gli altri gli siano sottoposti ed eseguano i suoi ordini. Ma tra il 750 e il 500 a.C. i Greci iniziarono a mettere in discussione questa idea, così come fecero tra il 1500 e 1750 gli Europei nordoccidentali e le loro colonie in Nord America, affrontando invece la domanda: se nessuno conosce davvero la volontà divina, come e in base a che cosa si può governare una buona società? Giunsero così a una stessa conclusione: non esiste un unico detentore della verità assoluta cui affidare tutte le decisioni importanti, ma ogni uomo conosce una frazione di veritàMettere insieme le conoscenze e il buon senso di tutti non produrrà necessariamente le decisioni migliori o quelle giuste, ma dovrebbe almeno produrre le “meno peggio” possibili nelle circostanze date

La democrazia non è una forma di governo eterna e perfetta; è piuttosto una soluzione a problemi contingenti. Se vengono meno questi problemi, la pretesa della democrazia di assicurare giustizia ed efficienza può risultare infondata.

Così nel VI secolo a.C. le città-stato greche trasferirono progressivamente il potere dai consigli di aristocratici ad assemblee più numerose, composte di cittadini liberi e maschi. A partire dal V secolo a.C. chiamarono la loro nuova costituzione ‘democrazia’, che letteralmente significa “potere del popolo”. In modo simile, tra la fine del XVIII e il XX secolo gli stati europei e le loro colonie oltremare trasferirono progressivamente il potere dai sovrani ai rappresentanti del popolo, andando oltre i Greci perché abolirono la schiavitù e concessero il diritto di voto alle donne. In entrambi i casi la scelta della democrazia nasceva da criteri di efficienza e di giustizia. Se l’origine delle leggi non è divina, affidarsi alla volontà del popolo è il modo più efficace di prendere le decisioni; se nessuno ha accesso alla verità assoluta, l’unico sistema equo è attribuire a tutti eguali diritti.

In Grecia questo sistema iniziò a entrare in crisi intorno al 400 a.C., durante la guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta. Alcuni leader militari avevano accumulato tanto potere da non sembrare più comuni mortali, e filosofi come Platone cominciarono a mettere in discussione la saggezza del popolo. Che cosa accade se la scelta democratica attinge più dalla stoltezza collettiva che dalla saggezza collettiva, producendo le peggiori soluzioni? E se la via per trovare la verità fosse affidarsi al pensiero di un numero ristretto di persone davvero eccezionali? La risposta si incarnò nelle persone di Filippo il Grande e di suo figlio Alessandro. Il primo conquistò l’intera Grecia tra il 359 a.C. e il 338 a.C., il secondo fece lo stesso con l’intero Impero Persiano a partire dal 324 a.C. Un celebre aneddoto narra che Alessandro, giunto al fiume che divide gli attuali India e Pakistan, convocò un gruppo di saggi hindu e chiese loro: “Come può un uomo diventare un dio?” e i saggi risposero: “Facendo qualchecosa che un uomo non può fare”. Non è difficile immaginare Alessandro chiedersi chi avesse compiuto un’impresa impossibile a un uomo comune e darsi la risposta che pareva inevitabile: “Io, Alessandro, che ho conquistato l’Impero Persiano in appena dieci anni. Un comune mortale non può farlo. Devo essere un dio”. Alle Olimpiadi del 324 a.C. Alessandro proclamò che tutti i Greci dovevano adorarlo come dio. In un primo momento il popolo fu disorientato, ma la grandezza dell’impresa di Alessandro aveva mandato in frantumi i presupposti dei due secoli precedenti. Una nuova élite stava concentrando nelle sue mani così tante ricchezze e così tanto potere che i suoi appartenenti sembravano davvero sovrumani. Quando Demetrio I Poliorcete, figlio di uno dei generali di Alessandro, assediò Atene nel 307 a.C., gli Ateniesi si affrettarono a offrirgli onori divini come “Dio salvatore” e nel secolo successivo divenne comune adorare i sovrani come dei. Molte città-stato si definivano ancora democrazie, ma le decisioni importanti erano prese da una piccola élite, strettamente legata alla corte.

Dunque la democrazia si diffuse in Grecia a partire dal 500 a. C. perché risolveva il problema di come prendere decisioni importanti e riuscire a governare la società, se nessuno ha accesso privilegiato al sapere divino. Ma intorno al 300 a.C. i successi di Alessandro e dei suoi successori sembrarono mostrare che alcune persone potevano averlo. La pretesa della democrazia di essere la forma di governo più efficiente sembrava infondata, quando un gran numero di Greci ormai pensava che i suoi leader fossero figli degli dei. La pretesa che fosse giusto dare a ogni uomo eguali diritti di decisione appariva altrettanto assurda quando alcuni uomini, ritenuti semidei, sembravano chiaramente meritare più degli altri.

Anche se è molto improbabile che il mondo del XXI secolo segua le orme della Grecia del IV e del III secolo a.C., traiamone la lezione più importante: la democrazia non è una forma di governo eterna e perfetta; è piuttosto una soluzione a problemi contingenti. Se vengono meno questi problemi, la pretesa della democrazia di assicurare giustizia ed efficienza può risultare infondata. Sicuramente è servita per le sfide specifiche del XIX e XX secolo, ma ora si stanno sviluppando macchine che hanno pretese di onniscienza sovrumana che né Filippo né Alessandro avevano. L’economista Thomas Piketty è preoccupato per il divario crescente tra ricchi e poveri che “genera automaticamente disuguaglianze arbitrarie e insostenibili, che minano i valori meritocratici alla base delle società democratiche”, ma le implicazioni di questo fenomeno impallidiscono a confronto con le possibili conseguenze delle nuove forme di intelligenza artificiale, di gran lunga superiori a qualsiasi capacità umana.

La fine della democrazia potrebbe essere soltanto uno dei cambiamenti meno scioccanti del XXI secolo? 

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