Il berlusconismo nella storia d'Italia
di Giovanni Orsina

16/09/2014

Il libro offre interessanti spunti sulla storia del potere politico in Italia dall’unità ad oggi. Non si occupa direttamente del cavaliere, ma della lunga catena di eventi che ha portato al successo di Berlusconi nei primi anni ’90. 

Il fenomeno è ancora troppo recente per poter essere analizzato a mente fredda, ma è comunque possibile tracciare un primo bilancio di quello che viene normalmente definito il “ventennio berlusconiano.”

Secondo Orsina il sistema Italia è sempre stato fragile, fin dall’unificazione del Paese. La classe dirigente si è sempre trovata alle prese con un problema di arretratezza economica, politica e culturale rispetto ai paesi del nord Europa. Che fare? L’élite italiana decide di utilizzare il metodo “ortopedico e pedagogico” (già utilizzato dalle élites nazionali negli altri paesi), ovvero interviene in modo ingombrante e autoritario sulla società per portare il paese sulla strada della modernità nel minor tempo possibile.

Ma le élites italiane hanno storicamente una caratteristica che altre non hanno: si sentono legittimate dall’essere “superiori” in senso platonico, cioè in quanto eccellenti in virtù intellettuali e morali. Considerandosi tali, le élites si sentono di diritto inamovibili, legittimate ad ostacolare in tutti i modi il ricambio ai vertici. Per proteggere la virtù al vertice, la classe politica pensa di dover “isolarsi e difendersi il più possibile dall’ambiente esterno”. Ne consegue che il processo di selezione della classe dirigente continua ad avvenire per cooptazione o per appartenenza, non in base a criteri meritocratici. Infatti nessuna classe politica italiana è mai stata rimossa democraticamente. I lenti cambiamenti al vertice sono avvenuti per cooptazione, e per non perdere il monopolio le élites hanno sostituito all’originale progetto creativo, che nel tempo perdeva efficacia e validità, come sempre succede nel mondo reale, processi di pacificazione tramite favori, benefici, prebende, arrivando a quella “privatizzazione della vita pubblica” a favore dell’uno o dell’altro interesse, di cui stiamo patendo le conseguenze.

Scrive Orsina, "se regole e istituzioni sono universalmente considerate un mero strumento di questo o quell’interesse particolaristico, ‘coperto’ dal sempre più logoro mantello di un ambizioso progetto politico nel quale non credono più nemmeno quelli che l’hanno elaborato in principio; e se per giunta questa convinzione è universale perché in larga misura istituzioni e regole sono diventate davvero un mero strumento di questo o quell’interesse particolaristico, eluderle e strumentalizzarle diventa allora l’unica strada logica da seguire.”

Nel tempo i partiti si rafforzarono occupando le istituzioni pubbliche e ampliando la loro capacità di controllo delle dinamiche sociali e politiche con una vera e propria opera di “rieducazione”, accompagnata da ‘"un’opera minuziosa, continua, spossante di mediazione e soddisfazione di interessi particolaristici” che portò all’esplosione del debito pubblico. È il trionfo della partitocrazia.

Ma all’inizio degli anni ’90 l’apparato pubblico, sempre più ingombrante e farraginoso, ha ormai smesso di funzionare. Il processo di integrazione europeo lanciato a Maastricht mette a nudo le debolezze strutturali del sistema Italia, che aveva fatto ampio uso di debito pubblico e svalutazione per oliare la macchina del consenso. È il momento in cui Berlusconi ‘scende in campo’. Berlusconi per la prima volta rompe un tabù dichiarando che gli Italiani vanno bene così come sono, che non occorre nessuna opera di rieducazione da parte della classe dirigente. E vince le elezioni.

Orsina non entra nel merito dell’esperienza berlusconiana, ma prende atto del fatto che la rivoluzione annunciata al momento della discesa in campo non si è realizzata. Perché?

Le ragioni, dice Orsina, sono principalmente due. La prima, più nota, è la politicizzazione e “mediatizzazione” delle iniziative giudiziarie. La seconda è strettamente politica. Berlusconi proponeva una teoria dello “stato iperattivo nello smontare sé stesso” a una società che non era pronta ad accoglierlo. “Dopo centocinquant’anni di ortopedia e pedagogia la società italiana era stracolma di Stato. Frenata, ingessata, irritata – ma pure aiutata, sostenuta e pagata dallo Stato. Il rapporto fra interessi privati e intervento pubblico, fra i desideri contrastanti da un lato di maggiore libertà, dall’altro di maggiore protezione e conservazione dei privilegi, si era ormai trasformato in un garbuglio storico quasi impossibile da districare.” Le élite antiberlusconiane hanno ostinatamente evitato di fare autocritica, non hanno saputo cogliere questo aspetto, non hanno mostrato interesse verso le ragioni altrui, mostrando così “evidenti limiti storici del proprio approccio alla questione italiana.”

Il berlusconismo, dice Orsina, è nato nel “solco che separa lo Stato dalla società civile, il pubblico dal privato: è stato prodotto da quel solco ma, a sua volta, lo ha pure manifestato, consolidato e probabilmente allargato.”

A cura di Davide Meinero

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