Siria, le (im)possibilità d’intervento
da un’analisi di George Friedman per Stratfor

07/05/2013

La guerra civile siriana è in corso da più di due anni. Durante la guerra sono intervenuti importanti attori esterni, l’Iran in particolare, ma anche la Russia, che hanno sostenuto gli Alawiti e il regime di Bashar al-Assad. I Sauditi e alcuni Paesi del Golfo hanno aiutato in vario modo gli insorti. Americani, Europei ed Israeliani hanno in generale evitato ogni coinvolgimento. Gli Americani e gli Europei non hanno affatto voglia di intervenire, memori delle esperienze in Afghanistan, Iraq e Libia. Tuttavia non hanno mai escluso la possibilità di intervento, stabilendo una linea rossa che, se superata, li costringerebbe a riconsiderare le loro strategie: l’uso di armi chimiche.

Questo limite è stato fissato per due ragioni. In primo luogo, gli USA e l’UE hanno un’avversione sistemica nei confronti della detenzione e dell’uso di armi di distruzione di massa in altri Paesi, perché le considerano una minaccia nei loro confronti, soprattutto se ad averle sono attori non statali. Per quanto riguarda la Siria, però, c’è un’altra ragione da considerare. Nessuno sospettava che al-Assad fosse così sconsiderato da usare armi chimiche, perché si pensava che la sua strategia consistesse nell’evitare interventi americani ed europei e che quindi non avrebbe mai superato la linea rossa. Questo tranquillizzava Americani ed Europei e permetteva loro di apparire determinati, evitando il rischio di agire.

Tuttavia nelle ultime settimane il Regno Unito, la Francia, Israele e gli USA hanno dichiarato che il regime di al-Assad ha usato armi chimiche. Nessuno è stato però in grado di dare indicazioni precise e in generale le prove fornite sono state abbastanza vaghe da non costringere nessuno a intervenire immediatamente.

In Iraq si scoprì che, contrariamente a quanto avevano affermato i servizi segreti, non era mai esistito un programma nucleare e che non erano mai state usate armi proibite, biologiche e chimiche. Se le ipotesi dei servizi segreti fossero state confermate, forse l’invasione americana avrebbe guadagnato un consenso più ampio a livello internazionale, ma non è detto che sarebbe finita diversamente. Gli USA avrebbero in ogni caso braccato i sunniti, gli Iraniani avrebbero comunque sostenuto le milizie sciite e i curdi avrebbero comunque tentato di approfittare del caos per istituire una regione autonoma. La guerra sarebbe stata combattuta in ogni caso e il risultato sarebbe stato probabilmente lo stesso.

In Iraq, in Afghanistan, in Libia gli USA hanno imparato che un esercito convenzionale riesce a rovesciare un governo abbastanza facilmente, ma che è molto più difficile, se non impossibile, usare l’esercito per imporre un nuovo tipo di governo. Quindi, che si superi o meno la linea rossa, sono in pochi a volersi impegnare in un nuovo intervento motivato dall’uso di armi di distruzione di massa.

In Siria si ripropongono questioni morali già viste in Iraq. Il regime di al-Assad è corrotto e criminale. È lo stesso regime che si era reso responsabile del massacro di Hama nel 1982, quando decine di migliaia di sunniti furono uccisi perché si opponevano al regime. Il regime ha inoltre ripetutamente violato i diritti umani e si è macchiato di brutali atrocità. La comunità internazionale era a conoscenza di tutto ciò, ma reagiva con relativa indifferenza. All’epoca la copertura mediatica degli eventi era molto più limitata; inoltre, l’Unione Sovietica, alleata della Siria, la proteggeva: attaccare il regime siriano significava attaccare l’Unione Sovietica e nessuno voleva impegnarsi in un conflitto del genere, perché troppo rischioso. 

Oggi la situazione è diversa. Nonostante l’esito delle campagne in Afghanistan e Iraq, gli interventisti di destra continuano a credere che gli USA e l’UE abbiano il potere non solo di rovesciare regimi, ma anche di pacificare i paesi oppressi e di instaurarvi democrazie all’occidentale. Gli interventisti di sinistra parlano invece di intervento neutrale: gli USA e l’UE intervengono per sconfiggere il male e, una volta liberato, il Paese sarà in grado di scegliere una democrazia costituzionale all’occidentale. Sono entrambe illusioni, alimentate dal successo della caduta del comunismo nell’Europa dell’Est, che è piaciuto a tutti. Bisogna però considerare che l’Europa dell’Est era stata occupata da Josef Stalin nel 1945, dopo essere stata dominata e occupata da Adolf Hitler. Gli Europei dell’est non avevano mai davvero appoggiato le due dittature, anzi le detestavano entrambe. Il crollo del comunismo ha permesso loro di tornare a essere quelli che erano un tempo. In ogni paese sopravvivevano sottotraccia la cultura politica e le aspirazioni della nazione oppressa. 

In Afghanistan o in Iraq la situazione è diversa. Questi paesi non sono europei e non lo vogliono essere. Saddam era disprezzato principalmente perché era profano e violava le norme fondamentali dell’Islam, sia nella vita privata sia nel modo in cui governava. Molti traevano vantaggi dal regime e lo sostenevano ma, una volta eliminato il regime, quel che resta è un paese musulmano desideroso di tornare alla propria cultura politica, così come gli Europei dell’est volevano tornare alla loro.

In Siria sono principalmente due le fazioni che si oppongono. Il regime di al-Assad è alawita, una branca eterodossa dello sciismo. La sua caratteristica principale è l’essere un regime laico che trae ispirazione non dalla democrazia liberale, né dall’Islam, bensì dal socialismo arabo laico. Ma se si rovescia il regime, quel che resta non è un movimento laico, liberale e democratico, bensì forze musulmane sino ad ora represse ma mai eradicate. Un recente articolo del New York Times ha sottolineato che non esistono gruppi laici organizzati nelle aree occupate dagli insorti sunniti: sono le forze religiose a controllare la situazione. In Siria il Partito Ba’th e gli Alawiti sono laici e brutali; ma eliminando il laicismo non si ottiene automaticamente una democrazia liberale.

Molti osservatori delle Primavere arabe non sono riusciti a cogliere questo aspetto: pensavano che una volta rovesciato il regime tirannico di Hosni Mubarak, laico e brutale, sarebbe emersa una forza democratica laica e liberale. In Egitto, più che in Siria, Iraq, Afghanistan o Libia, questa forza effettivamente esisteva, ma non rappresentava un’alternativa reale a Mubarak. La vera alternativa erano i Fratelli Musulmani. Non esisteva nessuna alternativa laica realizzabile senza l’appoggio dell’esercito egiziano. 

Le difficoltà di un intervento.

Intervenire in Siria è molto complicato dal punto di vista militare. Non è possibile intervenire senza colpo ferire. Un attacco diretto alle industrie chimiche potrebbe essere la soluzione, ma i servizi segreti non sanno localizzare le strutture con assoluta precisione. La Siria ha un sistema aereo di difesa che non può essere annientato senza causare numerose vittime tra i civili. Se gli edifici bombardati contenessero effettivamente armi chimiche, le sostanze in esse contenute potrebbero disperdersi nell’atmosfera al momento dell’esplosione. L’invio di truppe sul campo è altrettanto complicato. Il paese è tutto un campo armato e per impossessarsi di arsenali di armi chimiche servono molti uomini ben preparati. Se poi si vogliono distruggere gli arsenali, bisogna in primo luogo controllare i porti, gli aeroporti e le numerose strade di collegamento.   

Per eliminare le armi chimiche – ammesso che ci siano – bisognerebbe occupare il territorio siriano. Probabilmente, considerate le dinamiche di una guerra civile, alcune armi chimiche possono finire nelle mani di insorti sunniti. Il problema però non può essere risolto tramite raid aerei o attacchi mirati da parte di truppe speciali: come è successo in Iraq, gli USA dovrebbero occupare il paese.

Se il regime di al-Assad venisse rovesciato, i suoi seguaci – in netta minoranza – continuerebbero a resistere, come fanno i sunniti in Iraq. I sostenitori del regime hanno prosperato grazie ad esso e sono convinti che, in caso di vittoria sunnita, le conseguenze per loro sarebbero disastrose. Quanto ai sunniti, devono vendicarsi di parecchie brutalità. Potrebbe nascere un gruppo laico e liberal-democratico sunnita, ma il potere resterebbe nelle mani degli islamici e di gruppi islamici radicali, alcuni dei quali sono legati ad al Quaeda. La guerra civile continuerà, a meno che gli USA intervengano a fianco dei musulmani, sconfiggano gli Alawiti e consegnino il potere ai musulmani. In Iraq più o meno l’hanno fatto. Ma gli USA volevano sconfiggere i sunniti, non volevano consegnare il potere agli sciiti. Finì che entrambe le fazioni si schierarono contro gli Americani.

Un intervento neutrale o un intervento mirato all’instaurazione della democrazia avrebbe conseguenze simili. Il potere militare americano si è basato in passato anche sull’instaurazione di democrazie costituzionali tramite l’invasione. Alcuni sostengono che si dovrebbe intervenire per fermare la carneficina e non per imporre i valori occidentali. Altri dicono che non ha senso intervenire senza imporre i valori occidentali. Entrambe le visioni sono sbagliate. Non si può fermare una guerra civile introducendo un’altra fazione nel conflitto, a meno che la nuova fazione sia potentissima. Gli USA sono potenti, non potentissimi; essere potentissimi significa anche causare moltissime vittime. Non si può trasformare dall’esterno la cultura politica di un Paese se non si è disposti a devastarlo, come successe in Germania e in Giappone.

Gli USA e l’UE non hanno le forze necessarie per porre fine alla carneficina siriana. Se interverranno saranno accusati di ulteriori spargimenti di sangue senza raggiungere alcun obiettivo strategico. Ci sono casi rari e di estrema importanza in cui si deve effettivamente intervenire, ma la carneficina siriana non può essere più importante per gli Americani e gli Europei di quanto lo sia per i Siriani.

 

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