Netanyahu in visita a Washington

21/05/2009

di George Friedman, 16 maggio 2009

 

 

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è recato in visita alla Casa Bianca per discutere con il presidente Barack Obama di alcune importanti questioni – il futuro del conflitto israeliano-palestinese, i negoziati con la Siria e la politica iraniana. Questo è solo l’ultimo di una lunga serie di incontri fra i primi ministri israeliani e i presidenti americani e gli argomenti trattati sono sempre stati più o meno gli stessi. Finora però la situazione è cambiata ben poco.

 

Questa è la seconda volta che Netanyahu ricopre la carica di primo ministro, ma ora il suo governo è piuttosto frammentato – coma la maggior parte dei governi israeliani degli ultimi anni. La politica israeliana è attualmente in fase di stallo a causa delle profonde divisioni interne e del sistema elettorale che accentua ulteriormente la frammentazione.

Politicamente parlando, Obama si trova invece in posizione decisamente più forte, ma finora si è mosso con estrema cautela, specialmente in politica estera. In ambito internazionale non è cambiato quasi nulla rispetto all’era Bush e le politiche adottate in Afghanistan, in Iraq, in Russia e in Europa sono essenzialmente le stesse della precedente amministrazione. Obama deve innanzitutto affrontare i problemi economici degli Stati Uniti e non ha quindi intenzione di rivoluzionare la politica estera: il presidente sa infatti che l’opinione pubblica potrebbe rapidamente cambiare idea e non vuole correre questo rischio.

Ed è proprio questo il problema: Netanyahu è venuto a Washington con la chiara intenzione di ridefinire la dinamica regionale del Medio Oriente. Il Primo Ministro vuole infatti che Obama riconsideri l’ipotesi che costituire due stati basti a risolvere il conflitto israeliano-palestinese – Avigdor Lieberman, ministro degli esteri del governo israeliano, ha già fatto sapere di non essere disposto ad appoggiare una soluzione simile. Netanyahu vuole inoltre che gli Americani si diano un tempo limite per negoziare con gli Iraniani, oltre il quale si dovranno prendere dei provvedimenti.

Ma Obama al momento ha altro cui pensare, dato che l’attenzione degli Stati Uniti è completamente assorbita dalla guerra in Afghanistan e in Pakistan. Inoltre finora tutti i presidenti che hanno affrontato il nodo del conflitto israelo-palestinese si sono ritrovati in una strada senza uscita.  Quindi la richiesta avanzata da Netanyahu di rivedere il processo di pace con ogni probabilità sarà scartata in partenza.

Ostacoli alla soluzione dei due stati

Per molti anni il processo di pace si è sempre basato sull’idea della creazione di due stati distinti. Tale risultato non è stato raggiunto per una lunga serie di motivi. Innanzitutto al momento esistono due entità palestinesi, Gaza e la Cisgiordania, che si combattono a vicenda. Secondo, la geografia regionale pone serissimi limiti alla creazione di due entità distinte, dato che in qualunque caso un eventuale stato palestinese situato in quella posizione sarebbe costretto ad appoggiarsi ad Israele per lo sviluppo economico. Terzo, al momento nessun governo palestinese riuscirebbe a contenere gli estremisti islamici, che continuerebbero a lanciare razzi nel cuore di Israele. Infine, né i Palestinesi né gli Israeliani al momento hanno una coerenza politica tale da permettere ai negoziatori di operare in una condizione di totale fiducia: qualsiasi risultato raggiunto potrebbe infatti venire cancellato con un colpo di spugna dagli avversari politici – o magari anche dagli alleati.

Per questo l’intero processo di pace è una chimera, compresa la soluzione dei due stati. Nessuna delle due fazioni può accettare quello che l’altra ha da offrire. Ma questa situazione di fatto ha fatto comodo anche agli Stati Uniti, che hanno interessi che vanno al di là di quelli di Israele – e a volte divergono. Washington sa che uno dei principali ostacoli alla creazione di uno stato palestinese è l’ostilità dei paesi arabi.

I Giordani temono l’ascesa di Fatah in Cisgiordania sin dalla ribellione del Settembre Nero, nel 1979.  Gli Hashemiti al potere sono etnicamente diversi dai Palestinesi, che costituiscono la maggior parte della popolazione giordana, e vedono la nascita di uno stato palestinese come una minaccia per la monarchia. Dal canto loro gli Egiziani vedono Hamas come gli eredi dei Fratelli Musulmani, che da sempre cercano di estromettere il presidente Mubarak dal potere, e quindi non potrebbero mai accettare la nascita di uno stato governato da Hamas. Anche i Sauditi e gli altri stati arabi della regione non vorrebbero vedere la nascita di uno stato palestinese, che rischierebbe di alterare in maniera troppo repentina lo status quo.

Nonostante ciò ogni stato arabo da sempre sostiene con forza – a parole – la nascita di un’entità palestinese autonoma. Questo avviene perché la popolazione dei paesi arabi  appoggia la causa palestinese e i vari regimi, per evitare di attirarsi l’odio dei  cittadini e rischiare di essere destabilizzati, urlano a gran voce e fingono di agire in favore dei Palestinesi – pur non facendo nulla di concreto.

Anche gli Stati Uniti preferiscono mantenere la situazione invariataLa collaborazione di Egitto, Arabia Saudita e Emirati del Golfo è di fondamentale importanza per Washington, che finge a sua volta di essere particolarmente sensibile al tema della causa palestinese, facendo comunque attenzione a non cambiare la dinamica della regione.

I vari processi di pace hanno fatto il gioco sia degli Stati Uniti che dei paesi arabi perché hanno fatto credere all’opinione pubblica internazionale che i diversi attori stessero davvero cercando di raggiungere un risultato concreto. Ma il ciclo era sempre lo stesso: dapprima visite di stato di alto livello seguite da negoziati e concessioni,  poi un momento di stallo e infine l’esplosione della violenza e così via.

Il processo di pace palestinese come teatro politico

Una delle più importanti proposte avanzate da Netanyahu è la revisione del processo politico. Secondo le parole di Shimon Peres, Netanyahu non si allontanerà molto dalla formula dei due stati. Il Primo Ministro israeliano vorrebbe spingere i vari stati arabi ad inserirsi nei negoziati e a partecipare attivamente alla ricerca di una soluzione. Di fatto Netanyahu vuole forzare i paesi arabi a rivelare la loro vera posizione sulla questione, cercando di aprire una crisi politica interna ai vari stati.

La mossa è astuta. Netanyahu è perfettamente consapevole del fatto che la sua richiesta non verrà accolta - e forse lo spera. La stabilità di Giordania, Arabia Saudita ed Egitto e addirittura della Siria sta particolarmente a cuore ad Israele, dato che un eventuale cambiamento potrebbe portare sulla scena attori ancora più pericolosi per la sicurezza interna del paese.

Israele è una potenza regionale conservatrice e non vuole vedere sconvolgimenti attorno a sé, dato che attualmente non si trova in una situazione pessima. Netanyahu vorrebbe però vedere una conferenza internazionale in cui i paesi arabi siano uniti nel rifiuto pubblico di dialogo con  Gerusalemme, perché questo gli consentirebbe di avere maggiore spazio d’azione in patria e potrebbe spingere l’opinione pubblica internazionale a cambiare opinione e ad avvicinarsi a Israele.

È comunque probabile che i paesi arabi riferiscano a Obama attraverso i canali diplomatici di non voler partecipare direttamente al processo di pace palestinese. Nemmeno gli Stati Uniti al momento desiderano una simile situazione: di solito i vari processi di pace si risolvono in un fallimento e la nuova amministrazione non vuole affrontare questa eventualità al momento. Il presidente statunitense vuole evitare la tempesta posticipando il processo di pace il più a lungo possibile: Obama ha già mandato George Mitchell in Medio Oriente e dal suo punto di vista questo è già più che sufficiente.

Netanyahu è consapevole di questo, ma la sua missione consiste nel convincere parte della sua coalizione – e in particolare Lieberman, il più aggressivo ministro degli esteri che Israele abbia mai avuto finora – del fatto che sta facendo ogni sforzo possibile per cambiare le relazioni fra Israeliani e Palestinesi.

In un contesto più ampio Netanyahu sta cercando maggiore libertà di azione: avanzando subito agli Stati Uniti una richiesta inaccettabile, con ogni probabilità in futuro riuscirà ad ottenere qualcosa di più modesto con maggiore facilità.

Israele e l’illusione della libertà di azione

Dal punto di vista israeliano il problema nelle relazioni con i Palestinesi è  che gli Stati Uniti hanno posto troppi limiti a Israele, e i Palestinesi ne sono consapevoli. Questo significa che i Palestinesi ormai sanno reagire all’uso della forza di Israele, sanno come prepararsi e resistere. Secondo Netanyahu il principale problema di Israele è che i Palestinesi sono certi di poter conoscere in anticipo le mosse israeliane, perciò vorrebbe convincere Obama a inserire un certo grado di ambiguità nella situazione, in modo che Israele possa riprendersi il vantaggio dell’imprevedibilità.

Ma la Casa Bianca non vuole nulla di imprevedibile nel conflitto israelo-palestinese: gli Stati Uniti sono abbastanza soddisfatti dell’attuale calma, specialmente ora che la situazione in Afghanistan si sta mettendo male. Obama non vuole che la crisi si estenda a macchia d’olio dal Mediterraneo all’Hindu Kush. Il fatto che Netanyahu debba soddisfare i membri della sua coalizione non importa affatto agli Stati Uniti, e fin quando Israele e il suo ministro degli esteri non avranno digerito la soluzione dei due stati difficilmente Washington promuoverà una conferenza di pace.

Netanyahu probabilmente sposterà l’attenzione su un’altra questione, ovvero l’Iran. Dai media israeliani è trapelata la notizia che il governo israeliano avrebbe deciso di non attaccare l’Iran senza il permesso degli Stati Uniti. In realtà Israele incontrerebbe molte difficoltà ad attaccare le infrastrutture iraniane senza l’ausilio di armi nucleari. Un campagna contro un nemico distante oltre 1000 kilometri potrebbe  rivelarsi un’esperienza estremamente complessa. L’aviazione israeliana dovrebbe percorrere un lungo tratto aereo controllato dagli Stati Uniti e attaccare usando missili cruise, che non sono però in grado di penetrare strutture molto resistenti; lo stesso dicasi per i missili balistici ICBM, che trasportano testate nucleari. In uno scenario simile Israele dovrebbe avvertire gli Stati Uniti delle proprie mosse – dato che l’aviazione sarebbe costretta ad attraversare lo spazio iracheno.  E’ impossibile credere che Israele decida di intervenire senza nemmeno avvertire gli Stati Uniti – queste voci erano già emerse un anno fa e questa è semplicemente la ripetizione della stessa storia.

Netanyahu ha promesso che l’attuale situazione di empasse con i Palestinesi presto finirà. Ma il Primo Ministro sa che la libertà di azione di Israele dipende dalle intenzioni statunitensi. Gli Israeliani trarrebbero probabilmente vantaggio da un cambiamento della situazione,  ma così non è  per gli Americani.  Netanyahu quindi non ha il potere di smuovere la questione palestinese o di risolvere il problema Iran: Israele non ha la forza di imporre la propria realtà agli altri e non può rinunciare al rapporto strategico con gli Stati Uniti, su cui si basa la sua sicurezza nazionale.

In conclusione, Israele potrà rivendicare la propria libertà di azione solo se potrà pagarne il prezzo. Ma al momento Israele non può pagare un prezzo troppo alto. Netanyahu si è recato a Washington per cercare di ottenere dei risultati senza offrire nulla in cambio, e certamente sapeva di andare incontro ad un rifiuto. Il suo problema è simile a quello degli Stati Arabi: vi sono infatti molti cittadini israeliani che credono che Israele sia una grande potenza, ma non è così. È una nazione potente solo perché i suoi vicini sono deboli e i suoi alleati sono forti. Ma molti Israeliani non vogliono sentirselo dire - Netanyahu stesso è giunto al potere facendo leva sull’orgoglio nazionale israeliano.

Quindi il processo di pace continuerà, anche se nessuno avrà grandi aspettative, i Palestinesi continueranno ad essere isolati e di tanto in tanto scoppieranno delle guerre.  E al momento per gli Stati Uniti questa situazione è la migliore possibile.

Tradotto e curato da Davide Meinero

 

 

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