La più succinta storia del Medio Oriente mai scritta

25/10/2023

Cliccare sulle immagini per ingrandirle.

È nozione comune che nell’antica Mezzaluna fertile, che oggi chiamiamo Medio Oriente, si sviluppò circa 13000 anni fa la prima civiltà agricola sedentaria umana, che costruì le prime città organizzate − e ciò avvenne grazie all’ottimo clima, al suolo fertile, all’acqua abbondante, alla presenza di una grande varietà di piante e di animali addomesticabili. La regione fu poi al centro dei grandi commerci globali e dei grandi imperi storici, per la sua posizione privilegiata a cavallo fra i tre continenti.

L’ultimo di questi grandi imperi, l’Impero Ottomano, durò dal 1300 circa fino al 1921. E tutto cambiò.

Gli Ottomani, fuggiti in Anatolia dall’Asia Centrale per scampare alle devastazioni di Gengis Khan, così come altre tribù di etnia turca che costruirono domini in Anatolia nello stesso periodo, puntarono a conquistare tutto l’Impero Romano d’oriente con sede a Bisanzio (Costantinopoli) e ci riuscirono nell’arco di circa 150 anni, conquistando anche Costantinopoli nel 1453.

Le tasse e i raccolti delle terre balcaniche e di quelle attorno al Mar Nero e al Mar Caspio resero ricco e possente l’Impero, molto più del commercio fra i continenti. Il governo imperiale vide nelle popolazioni dell’Anatolia e della costa mediterranea la fonte inesauribile di abili e fedeli guerrieri e burocrati.  Li reclutavano giovanissimi, ancora quasi bambini, e li educavano e addestravano in grandi scuole specifiche, quindi li inviavano a conquistare, controllare, amministrare i ricchi territori europei, dove le popolazioni cristiane locali erano mano d’opera esperta e laboriosa, ma impietosamente sfruttata e priva di ogni autonomia (le popolazione cristiane dei Balcani ancora oggi serbano rancore  per i Turchi). 

Un’altra peculiarità dell’Impero Ottomano fu che fino al 1860 tutte le terre dell’Impero rimasero proprietà o dell‘Imperatore o del demanio (cioè dello Stato). I signori feudali non possedevano i feudi, li amministravano e li gestivano finchè l’imperatore apprezzava i loro servigi, ma non avevano il diritto di venderli né di trasmetterli in eredità. Di conseguenza i signori feudali non avevano nessun interesse a investire in infrastrutture per irrigare, conservare fertili le terre, creare sistemi di trasporto e di magazzinaggio. Le terre venivano sfruttate in ottica di breve durata. L’imperatore a sua volta non aveva interesse ad investire per ammodernare o riparare le infrastrutture dell’interno dell’Anatolia e in Medio Oriente, regioni da cui riscuoteva le tasse prevalentemente sotto forma di giovani da destinare all’esercito e all’amministrazione. La ricchezza materiale veniva quasi tutta dalle terre d’Europa, ed era sovrabbondante.

Così il Medio Oriente, già Mezzaluna fertile, divenne zona di brulle colline pietrose, pianure aride, paludi malariche lungo le coste. Anche le grandi città storiche del passato decaddero, si impoverirono, tanto più che a partire dal 1500 dalla penisola iberica e poi da Francia, Olanda e Inghilterra partì la conquista del continente americano e si avviò il grande commercio sugli oceani, grazie alle tecnologie che permettevano di costruire navi adatte alla navigazione di lunga durata e produrre beni su scala industriale utilizzando energie fossili. L’India e tutte le coste dell’emisfero sud divennero accessibili via mare; le vie carovaniere di terra, da cui il Medio Oriente aveva sempre ricavato grandi profitti, non furono più di importanza globale e dal 1700 cessarono di produrre ricchezza.

L’impetuoso sviluppo dei nuovi imperi commerciali europei e dell’Impero Russo a partire dal 1700 fermò l’avanzata degli Ottomani in Europa e poi progressivamente li respinse fuori dal territorio europeo.

La fine definitiva dell’Impero Ottomano giunse con la Prima guerra mondiale, quando Tedeschi, Francesi e Inglesi si disputarono le aride e povere terre dell’Anatolia, che da secoli erano decadute e non interessavano nessuno. Perché questo risveglio di interesse? Perché Francia e Inghilterra avevano sviluppato grandi imperi nell’Asia meridionale (India, Indocina, Malesia) con i quali avevano grandi volumi di commercio, perciò quelle regioni asiatiche dovevano essere facilmente e rapidamente raggiungibili anche da grandi eserciti, ma il passaggio via mare tramite l’istmo di Suez e il Mar Rosso era invece stretto, lento e pericoloso. Gli eserciti delle grandi potenze coloniali dovevano poter utilizzare carovane di automezzi lungo la più breve via terrestre, che passava attraverso il Medio Oriente.

La storia dal 1921 in poi è nota:

L’Anatolia e Istambul divennero Repubblica di Turchia, dopo lo sterminio dei Cristiani armeni al suo interno; Francia e Inghilterra si spartirono il Medio Oriente in due Protettorati, per crearvi le condizioni per la nascita di stati locali.

Alla caduta dell’Impero Ottomano i territori mediorientali non avevano né confini politici (si trattava di un unico spazio aperto), né classi dirigenti locali (perché tutta l’amministrazione era sempre stata concentrata nella capitale, Istambul). C’erano capi tribali che talora disponevano di armate locali a difesa della sicurezza fisica della tribù e del territorio su cui tradizionalmente abitava. Su costoro fecero leva Francesi e Inglesi per trasformarli in emiri o re di nuovi stati, dai confini arbitrari, che sarebbero stati fedeli alleati dei Francesi o degli Inglesi che li avevano messi sul trono. La Transgiordania divenne stato nel 1928, l’Iraq nel 1932, entrambi però rimasero sotto controllo militare inglese. Il Libano divenne stato nel 1943, la Siria nel 1946.

Un problema spinoso si presentò subito nella regione che i Romani avevano chiamato Palestina. Fin dal 1916 gli Inglesi l’avevano promessa agli Ebrei che vi abitavano da millenni e a coloro che dal 1888 vi promuovevano attivamente l’immigrazione e l’accoglienza di Ebrei profughi dall’Europa, dove le persecuzioni e le stragi erano frequenti − soprattutto nell’Impero zarista. Negli ultimi decenni del 1800 l’antisemitismo feroce era molto diffuso anche in Francia, Germania e Italia.

Gli Ebrei del mandato britannico di Palestina si misero perciò alacremente al lavoro per acquistare terre, costruire canali, fogne, strade, argini, prosciugare paludi, rendendo coltivabili anche le pietraie. Fu l’inizio del periodo eroico dei kibbutz. Crearono anche scuole, università, ospedali, teatri, grandi orchestre e centri di ricerca scientifica. Intere città sorsero in pochi anni sulle dune di sabbia lungo la costa. Gli Arabi, accorsi dalle regioni circostanti per prender parte a questa intensa attività economica, attorno al 1924 si resero conto che la Palestina sarebbe diventata lo stato degli Ebrei e iniziarono allora ribellioni e massacri. Durante la Prima guerra mondiale gli Inglesi avevano condotto un doppio gioco: avevano alimentato la collaborazione degli Ebrei con la promessa che la Palestina sarebbe diventata il loro ‘focolare nazionale’, ma avevano anche alimentato l’insurrezione degli Arabi del Medio Oriente contro gli Ottomani promettendo loro il territorio dopo la sconfitta degli Ottomani. Qui si inserì l’attività del celebre Lawrence d’Arabia.

Dal 1924 continua a non trovar soluzione la ‘questione palestinese’. Un secolo.

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale gli Inglesi mantennero il controllo diretto della Palestina, cercando di barcamenarsi fra Arabi ed Ebrei per tenerli entrambi relativamente tranquilli. Quando iniziarono le stragi naziste, gli Inglesi chiusero le porte della Palestina all’immigrazione ebraica, per timore di inimicarsi gli Arabi. Impedirono così a milioni di Ebrei di sottrarsi alla Shoah. Tuttavia il Gran Muftì di Gerusalemme invitò la popolazione musulmana a sostenere Hitler e arruolò un esercito di Islamici nei Balcani, che mise al servizio dei nazisti. Invece gli Ebrei di Palestina si schierarono con gli alleati e si arruolarono volontari per combattere in Europa (ebbero un ruolo chiave nei combattimenti contro i nazisti in Italia lungo la ‘linea gotica’, da Montecassino all’Emilia Romagna).

Alla fine della Seconda guerra mondiale gli Inglesi, esausti e ormai privi dell’Impero in Asia, lasciarono il mandato di Palestina e rimisero la ‘questione palestinese’ nelle mani dell’ONU, allora appena costituito. Nel 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò la spartizione della Palestina in due aree: una parte a sovranità ebraica, costituita dalle aree fertili in cui già erano prevalenti gli Ebrei, più la massima parte delle aree desertiche a sud. Si trattava di tre macchie di territorio senza confini difendibili, senza continuità territoriale, ma gli Ebrei l’accettarono e vi istituirono lo stato di Israele, proclamato il 14 maggio 1948, giorno in cui gli Inglesi ritirarono anche gli ultimi soldati. Gli Arabi non accettarono la spartizione.

Ma quali Arabi? Non esisteva né era mai esistita una nazione araba palestinese, né uno stato palestinese con propri rappresentanti politici; il 15 maggio 1948 la striscia di Gaza era de facto territorio egiziano, il resto della regione era parte del Regno di Giordania. A rifiutare la spartizione fu la Lega Araba, allora costituita da Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Siria e Yemen. All’alba del 15 maggio ‘48 la Lega araba attaccò Israele con sei diversi eserciti. Nel corso del 1949 Israele faticosamente prevalse sui vari fronti. Vennero firmati armistizi con i vari stati arabi confinanti. Gli eserciti si fermarono lungo la ‘linea verde’, che segnava le rispettive posizioni al momento della tregua. Nella memoria degli Israeliani la guerra del 48-49 è la guerra di indipendenza, in quella degli Arabi è la ‘naqba’, la catastrofe.

Vennero poi mosse altre due guerre da parte degli stati arabi contro Israele (nel 1967 e nel 1973), ma a determinare l’incancrenirsi della ‘questione palestinese’ furono le improvvide iniziative dell’ONU, allora alle sue prime esperienze con crisi internazionali. Ancora oggi quasi nessuno osa parlarne, ma se non si capisce e non si affronta la questione degli errori commessi allora dall’ONU – e proseguiti per inerzia attraverso i decenni − non si potrà porvi rimedio. La questione palestinese rimarrà insanabile.

L’8 dicembre 1949 venne costituita l’UNWRA, agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel vicino oriente (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) che opera in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. È l'unica agenzia dedicata soltanto ad aiutare i rifugiati provenienti da una regione o conflitto specifico. È separata dall'UNHCR, l'agenzia dell'ONU per i rifugiati, creata posteriormente alla creazione dell’UNWRA, l'unica altra agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di tutti gli altri rifugiati nel mondo, cercando di trovar loro nel più breve tempo possibile una sistemazione sostenibile in qualunque parte del mondo. L’UNWRA invece assiste senza limite di tempo i rifugiati palestinesi e tutti i loro discendenti, perché questa è la sua missione per statuto. L’ONU si rese conto dell’errore e non lo ripeté quando redasse lo statuto dell’UNHCR. Inoltre nello stesso dicembre 1949 l’Assemblea generale ONU approvò anche la risoluzione 194 che, seppur in modo ambiguo, sembra riconoscere un presunto ‘diritto al ritorno’ dei rifugiati e dei loro discendenti, senza limite di tempo.

L’UNWRA riconobbe come rifugiati 726000 Arabi palestinesi cui iniziò a fornire assistenza nel 1950. Oggi sono diventati quasi 6 milioni (l’ultimo censimento del 2015 ne contò 5.149.742), di cui circa il 40% vive in altri paesi, ma senza richiedere né ottenere la cittadinanza e senza perdere la qualifica di ‘rifugiato’, le sovvenzioni internazionali e il presunto diritto al ritorno. Quasi tutti i paesi arabi che sostengono a parole la causa palestinese non concedono loro né il permesso di lavoro, né il diritto di cittadinanza, con la scusa che i Palestinesi non debbono perdere il diritto al ritorno. Fa eccezione la Giordania.

L’UNWRA gestisce aiuti per circa un miliardo e mezzo di dollari l’anno, cui si aggiungono gli aiuti elargiti da alcuni paesi della Lega Araba, dall’Unione Europea e dall’Iran. L’Iran però contribuisce soprattutto con armi, addestramento militare e istigazione ideologica, pagando uno stipendio ai miliziani che accettano di agire secondo le direttive dell’Iran. Lo stesso aveva fatto l’Egitto ai tempi di Nasser; fino al 1973 L’Egitto pagò, armò e addestrò le milizie dell’OLP, guidate da Arafat. 

Mantenuti, educati ed assistiti sanitariamente dall’UNWRA e da altre organizzazioni internazionali, i Palestinesi non hanno certo problemi di sopravvivenza, ma non hanno spazio di iniziativa né personale né di gruppo, all’infuori di far parte dei gruppi armati al servizio dell’Iran o di altri paesi. È una vita soffocante, ristretta, limitata, che alimenta desiderio di libertà, ribellione, terrorismo e odio. È umanamente comprensibile – ovvio direi − che mantenere per molti decenni in un limbo angusto una popolazione in crescita non può che alimentare crescente ira e aggressività. Ma la comunità internazionale non vuole – non può? − smentire se stessa.

La militanza armata palestinese ha contagiato popoli vicini. Ha portato al disordine e alla guerra civile prima la Giordania, poi il Libano.

Negli anni ‘90, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sembrò che fosse possibile un nuovo equilibrio regionale che portasse a risolvere anche la questione palestinese. Dal 1992 al 2000 vennero condotti negoziati all’insegna del motto ‘due stati per due popoli’Ma su di un territorio grande come la Lombardia e prevalentemente desertico non possono esistere due stati indipendenti e reciprocamente ostili: non c’è proprio lo spazio fisico per permetterlo. Gli Israeliani sono quasi 9 milioni, di cui circa due milioni sono cittadini arabi. I Palestinesi e i rifugiati con il presunto diritto al ritorno oggi sono più di 8 milioni. In uno stato unico in cui rientrassero tutti i discendenti dei rifugiati originari, gli Ebrei sarebbero minoranza. In due stati davvero indipendenti, dunque con due eserciti, lo stato arabo avrebbe il sopravvento militare, perché sostenuto da tutti gli altri Arabi della regione.

Le trattative alla fine non portarono risultati, perché non potevano realisticamente esserci risultati accettabili per entrambe le parti, se non rinunciando all’idea che tutti i discendenti dei rifugiati del ‘49 abbiano diritto al ritorno. In quale altra parte del mondo si chiede il diritto al ritorno dei discendenti dei rifugiati a seguito di guerre di 80 anni prima? In nessuna.

Il terrorismo palestinese riprese. Il resto è cronaca abituale, che si incrocia con le guerre civili e il terrorismo islamico degli ultimi decenni in Libano, Iraq e Siria.

Ora gli Stati Uniti e l’Europa stanno tentando di adottare nuovamente la strategia degli Inglesi e dei Francesi all’epoca dei loro impericreare una fascia di stati e popolazioni solidali, legati da grandi infrastrutture energetiche e logistiche comuni, capaci di sviluppare economie integrate, che costituisca un collegamento via terra fra le coste del Mediterraneo orientale e l’Oceano Indiano, mettendo in sicurezza anche il Canale di Suez e il Mar Rosso e facendo barriera contro l’aggressività dell’Iran. Dovrebbero farne parte Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Israele, gli Emirati. La Turchia, già membro NATO, farebbe da jolly, capace di dialogare con tutti e impossibilitata ad allinearsi in toto con nessuna potenza regionale. Per la sua posizione è uno stato-cerniera fra Russia, Unione Europea, Iran e mondo arabo. Posizione molto difficile, che richiede grandi capacità di negoziazione, grande senso dell’equilibrio di potere e una buona dose di cinismo.

Ma la cooperazione fra mondo arabo e Israele richiede la soluzione della questione palestinese, che non può essere risolta soltanto ripetendo il mantra ‘due stati per due popoli’, né può essere risolta tramite negoziazioni che non propongano una ricollocazione per la maggior parte dei discendenti dei profughi originari. Deve cambiare la mission dell’UNRWA e dell’intera comunità internazionale: non più assistenza in campi profughi per secoli, ma assistenza per il ricollocamento. È ora di avere il coraggio di dirlo forte e chiaro.

L’Iran a ottobre 2023 ha scatenato i folli miliziani di Hamas a Gaza, cerca di alimentare guerriglia nel West Bank, attacchi missilistici dal Libano (dove opera Hezbollah, altra milizia al soldo dell’Iran) e atti di terrorismo in molti paesi, anche europei, per far fallire il progetto occidentale, che ha avuto come primo passo formale i cosiddetti patti di Abramo. Se le piazze arabe insorgono, la strategia occidentale fallisce subito. Se le piazze arabe non insorgono in modo significativo, occorre sradicare Hamas, poi l’Occidente deve agire dandosi un programma condiviso, di cui il primo passo non potrà essere che una revisione dello statuto dell’UNWRA, o la chiusura dell’UNWRA e il trasferimento della questione palestinese ad altre organizzazioni internazionali con mandato diverso da quello dell’UNWRA, che per 70 anni ha incancrenito il problema, con grave danno di tutta la regione.

 

Lascia un commento

Vuoi partecipare attivamente alla crescita del sito commentando gli articoli e interagendo con gli utenti e con gli autori?
Non devi fare altro che accedere e lasciare il tuo segno.
Ti aspettiamo!

Accedi

Non sei ancora registrato?

Registrati

I vostri commenti

Per questo articolo non sono presenti commenti.