Il futuro del jihadismo in un mondo multipolare

08/09/2023

Tratto da un articolo di Charles Thorson per Strategic Forecasting, pubblicato i 25 agosto 2023.

 

Il riconoscimento da parte dello Stato Islamico, il 3 agosto scorso, della morte del suo leader, presumibilmente per mano di jihadisti siriani rivali, è l’occasione per valutare il possibile futuro del jihadismo in un contesto di rinnovata competizione tra grandi potenze.

Il panorama ideologico jihadista dell’ultimo ventennio ha avuto due modelli concorrenti: al Qaeda e lo Stato Islamico. Al Qaeda preferisce un approccio graduale, cerca di rovesciare i regimi negli stati islamici che hanno il sostegno degli Stati Uniti, mira a istituire uno stato teocratico sovranazionale. Lo Stato Islamico, al contrario, sfida in modo radicale l’ordine esistente all’interno del singolo stato e cerca di conquistarne subito il territorio.

Scontri e discordie tra al Qaeda e gli affiliati dello Stato Islamico si sono visti in Mali, Nigeria, Siria e altrove, in regioni in cui non paiono esistere alternative ideologiche all’islamismo (Medio Oriente e Nord Africa), cioè all’idea che la religione islamica debba essere la fonte del diritto. Un sondaggio condotto dal Barometro Arabo tra il 2021 e il 2022 ha mostrato che la popolarità dell’islamismo è aumentata, anziché diminuita, negli ultimi anni, ma la crescente religiosità e l’approvazione degli arabi per l’Islam politico non si sono tradotte in sostegno alla violenza jihadista. Ma se al Qaeda e lo Stato Islamico riuscissero a superare le loro divisioni e/o definire chiaramente un nemico comune, potrebbero rafforzarsi e raggiungere poteri di governo di vasti territori?

Il jihadismo moderno è il prodotto di movimenti religiosi sia violenti che non violenti, affonda le radici ideologiche nel movimento politico egiziano dei Fratelli Musulmani degli anni ’50 e ’60. È l’ideologia trainante del terrorismo in Medio Oriente e Nord Africa dalla fine degli anni ’70. La guerra sovietico-afghana del 1979-1989 fu il momento cruciale che portò all’internazionalizzazione del jihadismo e alla fondazione di al Qaeda nel 1988, per espellere l’Unione Sovietica dal territorio islamico e poi procedere verso l’instaurazione del dominio islamista a livello globale. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti divennero il cosiddetto “nemico lontano” dei gruppi militanti. Sotto la guida degli egiziani Ayman al-Zawahiri e Abdel Salaam Faraj i jihadisti vollero attacchi contro gli Stati Uniti e l’Occidente perché li ritenevano necessari per rovesciare i regimi corrotti dell’Arabia Saudita e dell’Egitto, sostenuti dall’Occidente.

La visione di al Qaeda portò agli attacchi dell’11 settembre, che scatenarono la “guerra al terrorismo” globale degli Stati Uniti. In Afghanistan la guerra portò un durò colpo ad al Qaeda, ma poi l’invasione statunitense dell’Iraq iniziò ad alimentare l’ascesa di al Qaeda in Iraq, che reclutò la classe dirigente del deposto dittatore e nel 2014 diventò lo Stato Islamico, avviando grandi operazioni sia in Iraq che in Siria. Lo Stato Islamico sotto Abu Bakr al-Baghdadi predicò la creazione di un califfato come chiave per sfidare l’influenza occidentale, mentre al Qaeda vedeva gli attacchi all’Occidente come pre-requisito per poter costruire il califfato.

Oggi il teatro principale di al Qaeda e Stato Islamico è l’Africa sub-sahariana, mentre i Talebani afghani (oggi contrari ad al Qaeda) potrebbero diventare il modello per gli islamisti del sud est asiatico.

La repressione da parte dell’Occidente ha messo al sicuro da attacchi gli Stati uniti e bloccato l’espansione del jihadismo, per ora. I gruppi jihadisti hanno dovuto concentrare tutta l’attenzione sulla propria sopravvivenza a livello regionale. Per mantenerla hanno fatto ricorso all’esacerbazione dei conflitti locali subnazionali. Pur mantenendo fedeltà allo Stato Islamico o ad al Qaeda, hanno assunto autonomia operativa a livello locale. Gli attacchi contro le strutture di sicurezza e i regimi locali non provocano grandi reazioni da parte dell’Occidente, mentre rafforzano il potere e la credibilità dei jihadisti.

In Afghanistan i jihadisti della provincia del Khorasan dello Stato Islamico (ISKP) stanno combattendo uno di questi conflitti regionali, in questo caso contro i Talebani. In Yemen al Qaeda nella penisola arabica (AQAP), sta concentrando gli attacchi alle aree del paese apparentemente controllate dal governo e sostenute dagli Emirati Arabi Uniti, in particolare Abyan e Aden.

Nel Sahel i gruppi jihadisti cercano un difficile equilibrio tra le priorità locali e la rilevanza globale degli eventi. Jamaa’ Nusra al-Islam wa al-Muslimin (JNIM) sta approfittando dell’insicurezza regionale per condurre attacchi in Mali, Niger e Burkina Faso, ma è contemporaneamente impegnato in una lotta contro lo Stato Islamico del Sahel (IS Sahel), per impedirgli di agire in modo più diretto contro l’Occidente e rischiare una reazione internazionale forte.

A lungo termine i jihadisti potrebbero diventare potenti se l’Occidente fosse costretto a concentrarsi sulle rivalità fra grandi potenze e trascurasse le strutture di sicurezza nei paesi islamici dell’Africa e del Medio Oriente. Ma per ora la disputa intra-jihadista tra al Qaeda e Stato Islamico funge ancora da limite alla crescita del movimento jihadista globale, poiché nessuno dei due è dominante ed entrambi cercando di attirare reclute dallo stesso bacino.

La Siria è uno dei luoghi in cui l’antiterrorismo è indebolito dalla competizione tra grandi potenze. In Siria gli Stati Uniti devono dedicare sempre più risorse a contrastare i pericoli provenienti da Iran e Russia, diminuendo la pressione contro lo Stato Islamico, che è ancora presente e sostiene un’insurrezione di basso livello nelle aree rurali. Nel Sahel una dinamica simile è in gioco con l’invasione delle forze Wagner appoggiate dalla Russia in Mali e Niger, che ha complicato e grandemente indebolito gli sforzi antiterrorismo occidentali contro JNIM e altri gruppi jihadisti nel paese.

In Medio Oriente e Nord Africa, Israele rappresenta probabilmente il futuro nemico naturale per i gruppi jihadisti, data la risonanza della causa palestinese. Fino ad ora i gruppi jihadisti hanno sviluppato una retorica contro Israele, ma hanno dedicato poche risorse per combatterlo, probabilmente perché questo presuppone di entrare in conflitto con i gruppi militanti palestinesi storici. Se i jihadisti si concentrano sul potere locale, infatti, hanno più facilità di sviluppo, però entrano in conflitto con i pre-esistenti gruppi islamisti o nazionalisti. Paradossalmente i jihadisti potrebbero lanciare attentati anche in Iran, Arabia saudita o Turchia, per non perdere del tutto la loro visibilità e credibilità in quanto movimenti islamisti sovranazionali, ma suscitando potenti reazioni da parte dei governi islamisti locali, come sta già avvenendo in Afghanistan.

In un nuovo mondo multipolare è probabile che le grandi potenze diminuiscano le attività antiterrorismo, lasciando più opportunità di sviluppo ai gruppi jihadisti, che però correranno maggiori rischi di divisioni interne e di repressione da parte degli islamisti già al potere.

 

 

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