La capacità di sopravvivenza del mondo ebraico

17/11/2022

Se si mettono a confronto la mappa politica del Levante nell’anno 800 avanti Cristo e quella odierna, si osserverà che soltanto Israele e Giudea hanno ancora la stessa lingua, la stessa religione, lo stesso alfabeto e alcune delle stesse leggi. Di tutti gli altri popoli che allora avevano propri stati e proprie leggi, oltre che una propria lingua locale, a stento sopravvive il ricordo.

È successo lo stesso in altre regioni, oppure no? In Egitto, per esempio, da più di 4000 anni esiste uno stato che ha mantenuto il proprio nome e una popolazione che ha popolato e coltivato con continuità il territorio, ma nell’Egitto arabo-islamico contemporaneo lingua, religione, scrittura, istituzioni e società non hanno più nessun legame con quelle dell’Egitto dei Faraoni.

Gli Ebrei – o Giudei o Israeliti (vedi la precisazione terminologica in calce) – non hanno avuto uno stato e non hanno avuto il controllo del territorio originario dall’anno 72 all’anno 1949, eppure sono l’unico popolo della regione ad aver mantenuto la propria cultura per oltre 2500 anni. Come si spiega questo apparente paradosso?

Una prima spiegazione si trova nell’obbligo di studio imposto agli Ebrei dai sacerdoti fin dall’anno 65, e fortemente ribadito dai rabbini (che sono maestri e giureconsulti, non più sacerdoti) dopo la distruzione sia dello Stato che del Tempio. La maggioranza degli altri popoli del mondo avrebbero introdotto l’obbligo scolastico circa 1800 anni più tardi. Le conseguenze dell’obbligo scolastico furono d’importanza vitale. Si legga in proposito il testo di Botticelli ed Eckstein ‘I pochi eletti’ . Poiché l’alfabetizzazione non rendeva un contadino più produttivo né gli consentiva di guadagnare di più, “l’investimento nell’alfabetizzazione era un onere privo di vantaggi economici per le famiglie che vivevano lavorando la terra”. Ma allora quasi tutte le famiglie vivevano di agricoltura. Le famiglie si trovarono nella situazione di disattendere le regole rabbiniche o doversi trovare o inventare altri tipi di lavoro e altre vie di sostentamento che, grazie all’alfabetizzazione, portassero più reddito, anche migrando in regioni dove artigianato e commercio potessero essere sviluppati su scala più ampia, quindi nei territori di imperi territorialmente vasti e pacificati, cioè dapprima nell’Impero Romano e in quello bizantino, poi nell’impero arabo-islamico.

Nell’arco dei secoli gli Ebrei migrarono ripetutamente in tutte le direzioni del globo allora conosciuto alla ricerca di migliori condizioni di vita, che facilmente trovavano grazie alla loro cultura e alle loro capacità professionali. Divennero “commercianti di vino, grano e bestiame, costruttori, lavoratori tessili, librai, rappresentanti e mediatori, locandieri, fabbricanti di orologi ad acqua, intermediari immobiliari, locandieri, tintori, fabbricanti di panni di seta e porpora, produttori di vetri, artigiani, armatori marittimi, mercanti di perle, bottegai, orafi, coniatori di monete, cambiavalute, finanzieri, banchieri di corte, farmacisti, medici, mercanti locali e a lunga distanza”.  

Le scuole ebraiche erano gestite dai rabbini. Si chiamavano cheder quelle per l’apprendimento primario, all’incirca fino ai 13 anni e yeshiva quelle per l’apprendimento superiore. La yeshiva fungeva non soltanto da accademia, ma anche da organo legislativo e da tribunale religioso cui la gente comune sottoponeva questioni, problemi e controversie attinenti ogni aspetto della vita quotidiana.

Scrivono Botticini ed Eckstein che “le due funzioni della yeshiva erano strettamente intrecciate. Le lezioni e le discussioni tenute nelle accademie miravano essenzialmente a individuare le regole appropriate per affrontare le questioni sottoposte dai membri delle comunità ebraiche all’attenzione dei dotti, a interpretare le sentenze, a indagarne le ragioni e le origini, a sanare contraddizioni apparenti”. Oggi le yeshivot sono spesso moderne università, pur senza dismettere totalmente il ruolo legislativo e giuridico al servizio della Comunità di riferimento.

Nel loro magnifico saggio ‘Gli Ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica’ Amos Oz e la figlia Fania constatano che “Non c’è traccia storica di comunità ebraiche analfabete in epoca antica o medioevale. È dunque ovvio che per più di due millenni e mezzo gli studiosi ebrei abbiano tenuto in vita un’autentica catena di conoscenza, che praticamente tutti gli ebrei maschi erano in grado di seguire con la lettura. Un lignaggio letterario, dunque”. Soprattutto l’eredità di una lunga tradizione giuridica. Ma l’adesione alla tradizione non fu un freno per l’innovazione, per lo sviluppo di nuove idee?

No, perché la tradizione ebraica non ha dogmi, sollecita la discussione e interpretazione dei testi. I discepoli di Mosè, dicono gli Ebrei, discutevano e memorizzavano in coppia la legge orale; anche lo studio dei testi scritti avviene in coppia. I Tannaim, i saggi rabbini dei primi due secoli dopo Cristo, i cui insegnamenti costituiscono ancora oggi il cuore della tradizione rabbinica, “cominciarono come ‘coppie’: cinque generazioni di leader del Sinedrio, due per generazione, colleghi e avversari”. Le loro interpretazioni e opinioni non coincidevano mai.

Il metodo dell’insegnamento ebraico consiste da sempre nella discussione fra maestro e discente. “Tutto si gioca attraverso un ragionevole disaccordo. Il bravo allievo è colui che critica giudiziosamente il suo maestro, offrendo una nuova e migliore interpretazione”. “La tradizione ebraica permette e incoraggia l’allievo a muoversi contro il maestro, a dissentire da lui, a dimostrare che si sbaglia”.

Scrive Amos Oz: “Al giovane studente ebreo è costantemente richiesto di dire qualcosa di nuovo (...) Ogni ragazzino al proprio bar mitzwah, ogni sposo sotto il baldacchino nuziale è tenuto a dire un chidush. Cioè una novità. Non solo a ripetere una sapienza antica. Non solo a porre domande e obbedire ai dotti responsi” (…) Piuttosto, a tirare fuori un’idea nuova, un’interpretazione pregnante, un collegamento inaspettato. Pur se accerchiati da una biblioteca immensa, si è comunque invitati a dire qualcosa di originale. E per chi volesse saperlo – sì, crediamo che l’attuale inclinazione israeliana per l’high-tech trovi in qualche modo origine in quelle fonti intellettuali”.

Inoltre sin dall’antichità si affermò nella cultura ebraica il concetto che D-o ha realizzato la Creazione in modo che le creature ne siano parte attiva. In questo consiste la libertà dei viventi, fin da Adamo ed Eva. Questo è il vivere: agire per portare a compimento la creazione secondo il disegno divino, che ogni vivente deve capire e realizzare - anche sbagliando ripetutamente. Nessun vivente può sottrarsi alla necessità di capire e decidere come agire nel creato. Tikun Olam, riparare il mondo, è l’attività e lo scopo di ogni vita, dicono gli antichi rabbini. Nessun vivente può sottrarsi alla necessità di capire e decidere come agire nel creato. Per aiutare le creature, D-o ha rivelato la legge tramite Mosè, ma anche la legge è infinita e deve essere costantemente reinterpretata dai viventi per poter agire nella storia. La tradizione ebraica rifiuta il dogma, perché la creazione è un eterno divenire.

Già nel tardo XVI secolo la mistica ebraica, la Kabala, rappresentava la creazione come Tzim Tzum, atto di suprema concentrazione di potenza divina che originava un eterno e infinito divenire nello spazio e nel tempo; la rappresentazione grafica di tale concetto presenta impressionanti analogie con l’odierna rappresentazione del Big bang.

C’è poi l’estrema importanza della specifica storia ebraica, che è una storia di rari trionfi e di mille persecuzioni, errori e migrazioni, una storia che nega la certezza di un radioso futuro, ma proprio nell’errore e nell’incertezza affonda radici possenti, che ne garantiscono la continuità. Scrive Amos Oz: “La civiltà ebraica conteggia quasi sei millenni dalla creazione e circa tremila e cinquecento anni da Mosè a oggi. Se invece restiamo sul terreno storico e ci atteniamo alla linea testuale, cioè alla solida sequenza di libri, abbiamo comunque per le mani almeno due millenni e tre quarti. Capita di rado che le storie siano così controllate dai propri protagonisti. (….)

Le cronache ebraiche contraddicono il luogo comune secondo cui la storia la scrivono i vincitori. Anche quando perdono, e perdono tremendamente, gli israeliti prima e gli ebrei dopo si danno gran pena per raccontarsi la storia. E raccontano ai propri figli tutte le brutte cose successe, con brutale sincerità: delitto e castigo, sconfitta ed esilio, catastrofe e fuga. Non è certo una storia piacevole, ma è decisamente, schiettamente autoprodotta.

Per molti figli, è stata – ed è ancora – un patrimonio accattivante, inquietante e financo esaltante. Ma è tutto fuorché una storia facile da raccontare ai propri figli. Conta più vittime che eroi e, negli ultimi duemila anni, nessun re e neanche un castello. I cavalieri dalla scintillante armatura sono i crociati che ci hanno squartati con le loro fiammanti spade medioevali.

Nelle cronache di altri popoli, dai Racconti di Canterbury di Chaucer alle fiabe dei fratelli Grimm, noi siamo i cattivi. E pure brutti”.

È però anche una storia di straordinari successi intellettuali e imprenditoriali – non soltanto di persecuzioni e stragi ricorrenti. Una storia in cui gli Ebrei hanno dovuto far fronte a cambiamenti continui e ad adattarsi a ogni altra cultura. Gli Ebrei hanno ancora un tasso altissimo di scolarità in tutti i paesi in cui vivono. È una storia che negli ultimi 100 anni ha visto eccezionali contributi ebraici a tutti i settori della letteratura, della scienza, della tecnologia, oltre che della musica e dello spettacolo. Contributi in percentuale spropositata rispetto alla consistenza numerica della popolazione che a quella cultura appartiene per tradizione. È una storia che ha recentemente visto la ricostruzione di un potere territoriale, uno stato ebraico, su di un lembo di territorio più piccolo del Piemonte, al 60% desertico o semidesertico. Israele oggi ha 9 milioni di abitanti, il doppio del Piemonte. È circondato da popolazioni ostili da cui giungono frequenti attacchi (vedasi gli altri contenuti del dossier). 

Con una popolazione di profughi, orfani e sopravvissuti, la costruzione dello stato di Israele ha richiesto e richiede energie straordinarie e una caparbia volontà di Tikun Olam. Facendo di necessità virtù, ben prima che nel resto del mondo il concetto di sostenibilità diventasse di moda, gli Israeliani hanno creato nuove tecnologie per la conservazione dell’acqua e del suolo, per la produzione di energia, per la difesa e sorveglianza dei confini e dei cieli, per la ricerca di soluzioni in ambito medico, per risolvere ingegnosamente i problemi quotidiani di tutti.

 

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