La politica del revanscismo
e del rancore

15/07/2014

In un articolo per Foreign Affairs Michael J. Mazarr nota un ritorno globale alla politica del rancore e del revanscismo.

Il successo di al Qaeda, dell’Isis e di altri gruppi non dipende soltanto dalla loro brutalità. Questi gruppi sfruttano abilmente il vittimismo per fare leva sulle frustrazioni popolari, specialmente nei periodi di crisi politica. Osama bin Laden ha sempre parlato di umiliazione dei Musulmani da parte degli ‘oppressori’ occidentali per incitare i seguaci a riappropriarsi dei propri diritti in quanto popolo eletto di Dio. L’ISIS ha utilizzato la stessa retorica in Iraq, facendo leva sulla rabbia sunnita nei confronti del governo sciita a Baghdad.

Il radicalismo islamico è un fenomeno ontologico che attrae le persone alla ricerca di identità e autostima.

La nuova ondata di terrorismo non è un fenomeno occasionale: gli equilibri mondiali infatti non dipendono solo dalla geopolitica ma anche dalla psicologia dei gruppi umani. Gli ideali cosmopoliti promossi per decenni dai mass media occidentali hanno spazzato via culture e valori locali, generando risposte reazionarie in alcune regioni.                        

Oggi i grandi rischi per la sicurezza scaturiscono dall’odio di quelle società e di quei gruppi che si sentono alienati o lasciati indietro nel nuovo ordine liberale. Sono persone che si sentono ferite e abbandonate, quindi determinate a vendicarsi delle umiliazioni percepite, per acquistare autostima. Questo vale per Siria, Iraq, Pakistan, ma anche per molti paesi dell’Europa dell’Est.

Anche Putin utilizza la stessa retorica e trova largo ascolto in Russia fra quelli che soffrono per le difficili condizioni economiche, e ne danno la colpa all’Occidente.  La “retorica del rancore” fa presa sulle società incapaci di adeguarsi alle nuove richieste della globalizzazione.  I Russi sanno che il loro paese è fra i più corrotti al mondo, che le istituzioni pubbliche sono inefficienti e che l’economia è tuttora legata alle esportazioni di materie prime. In un sondaggio del 2011 il 43% della popolazione ha dichiarato che il paese è sulla strada sbagliata,  l’80% ha detto di non capire la politica del governo. Le preoccupazioni si tramutano in paura, frustrazione e desiderio di auto-affermazione: in un sondaggio del 2012 il 73% dei Russi ha dichiarato che il paese meritava maggiore rispetto.  Non deve quindi stupire se il 72% apprezza Putin, simbolo della rivincita russa nel mondo.

La politica del rancore non è nuova nella politica internazionale, ma ora sta diventando una forza trainante usata da leader che perseguono interessi propri. Dopotutto i Russi potrebbero trarre più benefici dal migliorare i rapporti con l’Europa che dall’assumere atteggiamenti ostili.

La retorica del rancore narra sempre la stessa storia: la lotta del “bene” contro il “male”,  in cui un popolo giusto, una nazione o un gruppo sociale cade in disgrazia per via delle cospirazioni dei malvagi, di solito gente venuta dall’esterno. C’è sempre l’odio per le tendenze cosmopolite che minacciano i valori dei giusti; c’è sempre la presenza di un leader carismatico capace di guidare il popolo fuori della misera condizione presente e riportarlo alla grandezza passata.

Queste idee tendono a comparire nelle comunità deluse dalla modernizzazione, percepita come un ostacolo allo sviluppo sociale perché acuisce divisioni religiose e sociali, oppure quando un paese o un gruppo perde − o crede di aver perso − una guerra.

È una tendenza ben visibile in Cina: i leader cinesi parlano costantemente dell’umiliazione subita ad opera degli Occidentali e della necessità di riconquistare la gloria del Regno di Mezzo. La si vede un po’ ovunque, nei media e nella cultura popolare, nei testi scolastici e nei dibattiti online. I rancori nazionalisti sono vivi e vegeti anche in Giappone e India, e persino nell’Europa occidentale. In tutti questi paesi diversi c’è una narrativa del rancore: una popolazione buona e giusta è sotto assedio culturale e sociale, mentre le istituzioni sono corrotte e inefficaci, etc.

Questa retorica ha un risvolto paradossale, perché vorrebbe l’inclusione proprio nell’élite globale che critica. Il sistema internazionale sarà pieno di psicodrammi di questo tipo nel prossimo decennio: per questo sarà necessario dare vita a istituzioni internazionali e norme che possano prevenire il caos, mitigare le crisi finanziarie ed evitare conflitti violenti.  Stati e comunità ricorreranno frequentemente ad aggressioni velate, non armate: operazioni di intelligence o ricatti economici, atti di terrorismo, attacchi cibernetici, guerre locali per il controllo delle risorse.

Le azioni russe in Georgia e in Ucraina sono l’esempio di questa forma grigia di belligeranza soft, adatta a persone piene di risentimento, che però non vogliono una guerra aperta.  In questi casi bisognerà imparare a utilizzare meccanismi di resistenza efficaci, più che ricorrere ad azioni di deterrenza, difficili da mettere in pratica. 

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