Cina, scioperi
e ristrutturazione economica

11/06/2010

L’8 e il 9 giugno scorsi la Cina ha vissuto un’ondata di violenti scioperi: ad esempio a Kunshan, appena fuori Shangai, 2.000 operai di un’azienda taiwanese hanno incrociato le braccia riversandosi nelle strade. Non appena la polizia è intervenuta è scoppiato il caos e 50 persone sono state ferite. Anche a Foshan, nel Guangdong, gli operai della Honda hanno scioperato chiedendo paghe più alte per far fronte alla crescente inflazione.    Il governo è consapevole di dover innalzare le paghe dei lavoratori,  ma teme (a ragione) che l’aumento del costo del lavoro possa  frenare troppo lo sviluppo dell’industria cinese, ancora troppo dipendente dall’export.  I  salari in Cina stanno però aumentando per diverse ragioni.   1)      Allo scoppio della crisi economica il governo ha deciso di puntare sullo sviluppo di alcune aree dell’interno  del paese. Milioni di lavoratori hanno deciso di trasferirsi all’interno – spesso tornando alle regioni da cui erano emigrati alla ricerca di lavoro – lasciando così le industrie della costa prive di manodopera  e spingendole ad aumentare i salari. 2)      Il settore industriale cinese è in fase di transizione: sono sempre più numerose le aziende che producono prodotti di alto livello e che vogliono  manodopera specializzata e meglio retribuita. Purtroppo il sistema scolastico non è in grado di supplire alla domanda di operai specializzati,  il che ha ulteriormente spinto le paghe verso l’alto. 3)      Esiste poi un fattore generazionale: i giovani emigranti non hanno più intenzione di lavorare nelle condizioni dei loro genitori e si battono per ottenere migliori condizioni di lavoro e paghe più alte.   Le paghe hanno iniziato a lievitare all’inizio del 2010, quando i governi delle regioni della costa (Jiangsu, Zhejiang, Guangdong e Shanghai) hanno innalzato il salario minimo del 10%- 20%. Il governo centrale ha incoraggiato anche altre provincie ad innalzare i salari per evitare che le disparità regionali si accentuino troppo.   Pechino sa che è assolutamente necessario  puntare sul mercato interno, perché il crollo dei consumi in Europa e negli USA ha causato una forte riduzione delle esportazioni. La crescita economica esponenziale della Cina si è basata sull’immensa riserva di manodopera a basso costo che favoriva gli investimenti dall’estero. Se il costo del lavoro aumentasse troppo, le aziende potrebbero decidere di ridurre il personale, puntare su prodotti di alta qualità o  trasferire la produzione altrove – causando un aumento della disoccupazione.   La recente ondata di scioperi, che finora ha preso di mira solo le aziende straniere, rischia di avere ripercussioni negative: il ministro dell’economia di Taiwan ha recentemente suggerito alle aziende taiwanesi di trasferire la produzione altrove se ‘vogliono sopravvivere’, e anche gli investitori giapponesi hanno ventilato l’ipotesi di chiudere gli stabilimenti in Cina e Vietnam e spostarsi nelle Filippine.   Il partito comunista si trova in difficoltà: da una parte è costretto a venire incontro alle richieste degli operai cinese per evitare la rivolta, dall’altra deve rallentare le riforme per paura di un aumento eccessivo della disoccupazione. Non sarà un compito facile, e Pechino farà il possibile per tenere la situazione rigidamente sotto controllo.     A cura di Davide Meinero

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