Ho visitato pochi giorni fa il loro centro a Tirana: nonostante i patimenti, il morale è alto, il clima caldo e cordiale. I Mojahedin sono tenaci e dichiarano: “Gli ayatollah non ci piegheranno mai. Sopravvivremo, non fermeremo la nostra lotta, siamo pronti a pagarne il prezzo.”
Nello spazio che i rifugiati hanno affittato tutto pare funzionare in modo efficiente. Oltre alla zona notte sono stati creati spazi comuni per i pasti, gli incontri, le discussioni. In una piccola officina vengono fabbricati mobili da essere venduti sui mercato per guadagnare un po’ di soldi. Ci sono sale conferenze aperte agli ospiti e una postazione per comunicare con l’esterno.
Ognuno ha un compito: alcuni cucinano, altri puliscono, altri curano i malati. C’è chi organizza le relazioni esterne, chi le attività produttive, chi i contatti diplomatici. Il centro è una efficiente organizzazione di oltre 200 persone animate da un forte spirito di comunità e da un obiettivo comune: la battaglia contro il regime per portare la libertà in Iran e tornare a finalmente a casa, dopo il lunghissimo esilio forzato.
Attualmente tutti gli sforzi della Resistenza mirano a far espatriare i superstiti tuttora in Iraq, ma le difficoltà sono molte: gli atti di sabotaggio del governo iracheno, la difficoltà di reperire i fondi per i trasferimenti e per le cure mediche, i ritardi dei paesi europei nell’organizzare l’accoglienza e la cura dei rifugiati. Il governo albanese ha recentemente acconsentito ad accogliere altre trenta donne che hanno urgente bisogno di cure mediche, ma le procedure di espatrio sono lunghe e difficili.
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