Guerra, odio e stanchezza

11/04/2022

Traduciamo il più fedelmente possibile le riflessioni personali di George Friedman contenute nell’articolo War, Hatred and Exhaustion, comparso su Geopolitcal Futures dell’8 aprile 2022.

 

Per gran parte della mia vita, mio padre ha lavorato come tipografo per il New York Times. I caratteri venivano sputati da macchine linotype e mio padre prendeva i caratteri e componeva la pagina con lettere di piombo. Quindi portava la pagina, del peso di oltre cento libbre, alla macchina da stampa. Lo fece bene fino ai sessant'anni. Un giorno tornò a casa dal lavoro, pulì la casa perché mia madre era malata, preparò una cena leggera, poi uscì a falciare il prato e a potare i cespugli. Vide un alberello secco e lo tolse da terra, rami e radici. Entrò in casa e disse a mia madre: “Non so cosa c'è che non va, ma sono stanco”.

La sua soglia di sfinimento era diversa dalla mia, più alta sotto ogni aspetto. Da giovane, durante la Seconda guerra mondiale, mio padre fu mandato nelle brigate di lavoro ungheresi, dove gli ebrei venivano mandati a lavorare e a morire. Era a nord di Stalingrado, dove i sovietici sfondarono le linee per presidiare la città. Quelli che sopravvissero ai combattimenti dovettero affrontare difficoltà indicibili. Era il profondo inverno russo, gelido e spietato. La maggior parte scelse di morire, come diceva mio padre. Lui scelse di vivere. Camminò verso ovest da Voronezh al confine ucraino attraverso l’Ucraina e i Carpazi fino a Budapest, dove trovò la strada di casa e abbracciò moglie e figlia. In seguito disse che a farlo andare avanti era l’immagine di sua figlia. Se avesse incontrato un soldato russo o un soldato tedesco sarebbe stato ucciso. Eppure sopravvisse, ma nel 1944 fu nuovamente mandato nel campo di concentramento di Mauthausen. Decise di non morire neanche lì.

La vita di un uomo è più della somma delle sue fatiche, ovviamente, ma le cito per dire che l’esaurimento delle forze è un fatto relativo. I limiti e l’esperienza dell’estrema debilitazione sono modellati da come li vivi. Una volta gli ho chiesto perché aveva scelto di vivere. Mi diede una serie di non risposte, infine semplicemente rispose: l’odio. L’odio gli diede il carburante per vincere i sovietici, i tedeschi e il freddo pungente. Mio padre attraversò l’Ucraina nel tardo inverno. Cercò di dormire pochissimo. Il terreno era duro e freddo e ci si poteva addormentare senza più svegliarsi. Mi disse che la terra è un’amante spietata, che anche un freddo non esagerato ma patito notte dopo notte può spezzare la volontà di un uomo. Stanotte vicino a Kiev nessuno dorme bene, indipendentemente dall’equipaggiamento. Il freddo entra sempre e la terra non cede mai.

La chiave è odiare il tuo nemico. Gli ucraini devono odiare i russi. I russi, se all’inizio non odiavano gli ucraini, ora lo fanno. Ma la verità è che sono fratelli, perché quando arriva la notte e soffia il vento, entrambe le parti maledicono il destino che li ha portati lì, e finché la situazione non cambia arrivano a sperimentare lo straordinario: il sonno, anziché essere conforto, porta l’agonia della terra fredda e dura, del fuoco dei fucili sopra le teste e dell’occasionale grido di un ferito che sa di non aver speranza. La terra è la tua amante, non puoi avere altri amori che la terra.

Nello scrivere di geopolitica, in questo caso di guerra, devo scrivere senza badare alla sofferenza, per poter vedere la forma della storia. Nascondo quello che so, ovvero che i caporali intrappolati da quella storia non sognano più un letto caldo e una mano amorevole. In qualche modo sanno nel profondo dell’anima che, anche se sopravviveranno, non saranno mai più gli stessi. Russi e ucraini stanno lasciando a terra i corpi e le anime di uomini normali. Stanno entrando in un mondo in cui lo sfinimento è così banale che ha poco significato e che anche l’agonia è sopravvivenza. Torneranno a casa come estranei, sbalorditi dal fatto che gli altri possano sentirsi stanchi e riposare. I soldati russi e ucraini condividono più tra di loro di quanto ormai condividano con le madri o i partner. Condividono la fredda, brutale sensualità della terra, l’amante più fredda che ci sia. Ho dormito su quella terra, e chi non l’ha fatto non capisce cosa ti fa. Per i caporali di entrambi gli eserciti, l’unica cosa che porta il mattino è un mondo pieno di morte. E ciò che li fa andare avanti è soltanto l’odio.

Ucraini e russi sono tutti dentro. L’Ucraina è mobilitata e la Russia non ha riserve. Ciò significa che tutto ciò che devono aspettare notte dopo notte è il terreno duro che spezza i deboli. Per i caporali, la guerra si riduce a questo. Non possono stancarsi e non possono cedere alla dura verità di una notte di fine inverno. E impareranno a usare ciò che è già in loro: l’odio. Mio padre lo pensava e lo sentiva, pur essendo soltanto un fuggitivo. I caporali sono soldati e l’odio che li alimenta si trasforma in rabbia e poi, se sopravvivono, in ricordi che li perseguiteranno per sempre, anche se in questo momento perseguitano l’Ucraina.

Puoi pensare alla guerra come fanno questi caporali, oppure come faccio io oggi. Vivo con l’idea astratta di un letto caldo che sarà qui anche domani. Ma so da mio padre che questo è pensare astrattamente alla guerra, non alla realtà del combattere. Ho dormito sulla terra fredda ai miei tempi, non con odio ma con il perpetuo disagio che col tempo è esacerbante dolore. Non ho mai avuto la forza, la volontà e l’odio di mio padre, ma ho abbastanza esperienza per sapere che la verità della guerra è il terreno duro e il vento freddo, che il mio attuale pensare è un lusso.

Penso a mio padre e qualche volta lo compatisco, ma non era uomo da accettare la pietà. Quindi penso invece ai caporali ucraini e russi, nessuno dei quali ha scelto di passare la notte con il freddo invece che con i propri cari e ammetterò di aver pietà non soltanto di loro ma anche dell’umanità, perché in tutta la storia dell’umanità, il duro e freddo terreno di guerra è stato un compagno costante. Ma, come direbbe mio padre, la pietà non ti terrà caldo. L’odio invece sì.

 

 

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