La globalizzazione cambia rotta

07/01/2022

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Due crisi economiche globali in meno di due decenni hanno infranto la fiducia nella struttura dell’economia globale. Il 2022 vedrà molte iniziative per ridurre l’eccessiva dipendenza delle economie locali dalle importazioni ed esportazioni. 

Le pandemie sono sempre in agguato, ma di solito non ci pensiamo. Ora che siamo costretti a pensarci siamo in preda al timore, che si traduce in una generale mancanza di fiducia nel futuro. In geopolitica e in economia la fiducia e la sfiducia hanno un grande peso. La diminuzione della fiducia nell’economia potrebbe modificare le strategie nazionali.

Oggi ci sono buone ragioni per non aver molta fiducia nella ripresa economica. La pandemia ha innescato una crisi energetica, ha messo in gravi difficoltà la catena di approvvigionamento, ha portato a carenza di manodopera e dunque all’inflazione. Ha accelerato il declino della globalizzazione in un momento in cui la cooperazione globale è particolarmente necessaria.

La deglobalizzazione è iniziata nel 2008 con la crisi finanziaria globale e si è sviluppata lentamente, fino a quando il COVID-19 non l’ha portata in tilt. Dopo il 2008 molti iniziarono a dubitare che la globalizzazione fosse certamente positiva e che l’interconnessione e l’interdipendenza fossero forze di stabilità. Allora lo stato-nazione si sentì nuovamente chiamato a proteggere la società dalle forze negative della globalizzazione. L’ascesa di movimenti nazionalisti e populisti in varie regioni ha annunciato questo cambiamento, insieme all’aumento del protezionismo. La Brexit e la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina sono stati i segni più visibili della deglobalizzazione, ma c’è anche un calo dei flussi di capitali globali e un declino del commercio internazionale.

Il 2021 ha visto un’impennata di ripresa economica dopo la stasi del 2020, ma l’impennata ha innescato la crisi della catena di approvvigionamento e ha causato anche la crisi energetica. Le restrizioni sui viaggi hanno privato l’industria navale di nuovi lavoratori a basso salario, mentre i lavoratori già attivi nel settore, sottoposti a forti pressioni, hanno lasciato il lavoro in gran numero. I costi di spedizione sono aumentati di quasi dieci volte rispetto al 2020. Le interruzioni della logistica hanno prodotto scarsità, la scarsità ha fatto aumentare i prezzi.

Le interruzioni legate alla pandemia hanno indotto le aziende a rivalutare le proprie priorità e vulnerabilità. In Germania il 19% delle aziende manifatturiere ha dichiarato in un recente sondaggio dell’Ifo Institute che apporterà modifiche alla catena di rifornimento, producendo in casa o presso altre aziende tedesche componenti che fino ad ora sono state prodotte in paesi a basso reddito e con larga disponibilità di manodopera. La rilocazione in Europa di queste produzioni porterà a un aumento dei costi, contribuirà ad aumentare l’inflazione.

Un rimedio sarebbe l’adozione accelerata dell’automazione. Dopo la crisi finanziaria del 2008 gli investimenti in robot sono grandemente aumentati, visto il basso costo dei finanziamenti. La Germania è oggi leader mondiale nell’uso di robot, con 7,6 robot ogni 1.000 lavori. La Corea del Sud ne ha 6, il Giappone poco più di 4. Gli Stati Uniti hanno soltanto 1,5 robot ogni 1.000 lavoratori. I paesi che non hanno livelli di automazione sufficientemente elevati non potranno diminuire rapidamente la loro dipendenza dai prodotti provenienti dai paesi a basso reddito. A lungo termine, tuttavia, l’automazione svolgerà un ruolo primario nelle economie sviluppate. I mercati nazionali diventeranno così meno vulnerabili agli shock esterni, ma saranno più suscettibili agli shock interni.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno guidato l’ascesa della globalizzazione, soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica. L’outsourcing era visto come un vantaggio, non un pericolo, per la prosperità interna. Ma il 2008 ha infranto la fiducia del pubblico in quelle idee e la sicurezza del sistema economico è tornata a essere la priorità dei politici.

Le economie più sviluppate si stanno allontanando dal resto del mondo e aspirano a costruire nuove comunità politiche ed economiche. Nel nuovo paradigma le alleanze bilaterali soppianteranno quelle multilaterali, anche se queste perdurano. L’Unione Europea manterrà il vantaggio di essere il più grande mercato comune del mondo e svilupperà accordi commerciali strategici con paesi come il Giappone e il Vietnam. Stati Uniti e UE stringeranno fra di loro accordi commerciali e di investimento in settori strategici come i semiconduttori, l’acciaio e l’economia ‘verde’. Il patto strategico AUKUS USA-Regno Unito-Australia integrerà anche accordi commerciali. 

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