Le teorie economiche e lo sviluppo reale

17/11/2021

L’economia non è una scienza, così come non è una scienza il vivere. Quelle che chiamiamo teorie economiche sono teorie sull’efficacia dei diversi strumenti che si utilizzano in economia, un po’ come la biologia e la psicologia provvedono teorie sulla struttura e sulle funzioni del cervello di un essere vivente, ma non forniscono unas gioda di vita o di pensiero. 

Senza nessuna pretesa di completezza o di precisione accademica, ecco le principali teorie sviluppate in epoca moderna per capire meglio l’economia e utilizzarne meglio gli strumenti o i componenti:

-          il monetarismo sostiene che il volume complessivo di denaro circolante deve essere sempre uguale o di poco superiore al valore dell’economia reale. Se è scarso, provoca crisi nell’economia reale, ne impedisce lo sviluppo. Se è troppo, provoca inflazione. Il compito delle banche centrali è saper calibrare con la massima precisione possibile il volume della base monetaria. Poi l’economia reale corre con le proprie gambe, non occorre che il governo la stimoli. Non c’è pericolo di inflazione, né di tassi di interesse eccessivi, se c’è sempre equilibrio fra necessità di capitale e offerta di capitale.

Le principali obiezioni al monetarismo sono:

-          è impossibile controllare il volume della base monetaria in una economia e in un mondo finanziario globalizzato;

-          non sempre l’economia reale può correre di più. Lo fa soltanto se c’è innovazione tecnologica o se c’è un incremento di domanda a seguito di incrementi demografici, aumenti salariali, eliminazione di barriere.

Molti politici hanno voluto interpretare il monetarismo a modo loro ed hanno sostenuto che aumentare la base monetaria (anche distribuendo denaro a pioggia) stimola automaticamente la crescita economica - ma i monetaristi seri non hanno mai detto questo.

-          I Keynesiani sostengono che in periodi di crisi lo stato deve farsi imprenditore e costruire infrastrutture e servizi per dare pieno impiego e rimettere così in moto anche l’economia privata. I Keynesiani sostengono dunque la priorità della politica e dello stato nella vita economica. Per svolgere bene i suoi compiti lo stato dovrebbe usare non soltanto il ricavato dalle tasse, ma anche il debito.

La principale obiezione di chi non è d’accordo con Keynes è che l’esperienza storica dimostra che la spesa pubblica va spesso grandemente sprecata e contribuisce poco alla ripresa economica. Può ridurre temporaneamente la disoccupazione, ma a medio e lungo termine non rilancia l’economia reale, se non c’è innovazione tecnologica o qualche altro cambiamento di scenario. Inoltre la spesa di stato toglie risorse e stimolo a coloro che potrebbero avviare nuove imprese, inventarsi nuove tecnologie.

-          I fiscalisti e i sostenitori della supply side economics sostengono che tassare molto l’impresa, la produzione e il lavoro scoraggia gli investimenti e scoraggia il lavoro. Bisogna tenere molto basse le tasse sul lavoro e sulla produzione, incoraggiare l’impresa − poi l’economia reale corre con le proprie gambe, cresce e crescendo solleva il livello di vita di tutti. ‘La marea alzandosi solleva tutte le barche’, è l’immagine che usano per spiegarsi. È meglio che lo stato si indebiti piuttosto che alzare le tasse sulle attività produttive. Le tasse uccidono la voglia di intraprendere, di lavorare, di inventare, di correre rischi.

Le principali obiezioni a questa teoria è che così si privilegiano i forti e i ricchi, si incoraggiano i monopoli, si riducono invece le risorse per aiutare i poveri e i deboli. La società diventa più ingiusta. Inoltre l’esperimento fatto in epoca reaganiana negli USA non ha dato i buoni risultati sperati.

-          I liberisti tradizionali sostengono che lo stato non deve mai indebitarsi, perché il debito è una tassa sulle future generazioni. Basta lasciar correre gli ‘spiriti animali’, regolandoli perché cooperino anziché confliggere – per il resto lo stato non ha titolo a intervenire nell’economia. Le tasse fanno parte della necessità di regolazione degli squilibri eccessivi e di provvedere sicurezza e giustizia, ma debbono essere contenute al minimo.

L'obiezione a questo liberismo di vecchio stampo è  cge, quando il debito pubblico è usato per investimenti che aumentano la produttività, ripagare il debito è facile e rapido. Inoltre i deboli e i poveri rischiano di non avere soccorso, se non è lo stato a farsene carico.

Tutte queste teorie sono state elaborate nel lungo periodo in cui lo sviluppo economico è andato di pari passo con lo sviluppo industriale innescato dalla scoperta dell’elettricità e dall’invenzione del motore (a vapore e a scoppio) e il motore dello sviluppo economico era certo, non occorreva ipotizzarne uno nuovo, e consisteva nella sempre maggiore automazione e massificazione della produzione. Le teorie economiche che si insegnano nelle università si possono considerare tutte vere e tutte false: sono regole per l’uso di strumenti quali la base monetaria, la tassazione, la scolarizzazione e la previdenza sociale, ma capire come quando e quanto conviene usare i diversi strumenti per creare nuovo sviluppo dipende dalle singole situazioni.

Oggi è evidente che l’ulteriore sviluppo economico, soprattutto nelle società postindustriali, ha e avrà come motore nuovi concetti e nuove tecnologie, in particolare quelle digitali, soprattutto l’intelligenza artificiale. È cioè chiaro che il vero motore dello sviluppo è l’innovazione. Come favorire l’innovazione e come sfruttare l’innovazione ai fini dello sviluppo economico e sociale è dunque il campo di indagine su cui si concentra l’attenzione degli economisti contemporanei, cioè di coloro che analizzano l’economia reale per ricavarne regole o teorie.

È recentemente uscito un testo che è stato preso molto sul serio negli ambienti accademici: Innovation in real places, di Dan Breznitz. Il testo propone l’identificazione di quattro diverse fasi del possibile sviluppo economico e sociale legato all’innovazione (che sgorga da nuove scoperte scientifiche o dalla creazione di tecnologie radicalmente nuove) e descrive le diverse politiche adatte ad agevolare le diverse fasi. Le quattro fasi possono essere così descritte:

-          lo sviluppo di un nuovo concetto: la ruota, la diga, la zappa, l’elettricità, il motore, la trasmissione di pacchetti di dati…. Frutto della creatività personale unita alla ottima conoscenza dei processi e degli strumenti già in uso. Prodotto della ricerca di base, dell’eccellenza scientifica, della libertà di pensiero, della necessità;

-          la realizzazione delle prime produzioni a fronte di un nuovo concetto: l’avvio della produzione di zappe o reti elettriche o macchinari motorizzati, o la creazione delle prime reti di canali di irrigazione, delle prime strade ferrate…. È la prima fabbricazione, che di solito copre l’intero processo e la messa a punto di tutte le componenti. Qui servono imprenditori arditi e di vaste conoscenze, tecnici capaci e versatili, servizi logistici e capitali di rischio. Occorre anche il sostegno della politica;

-          la terza fase è quella che procura grande sviluppo economico e produce molta ricchezza. È anche la fase che dura più a lungo e arricchisce l’intera società. In questa fase ogni singolo passo del processo, ogni singolo componente e ogni singolo servizio associato alla produzione subiscono semplificazioni, innovazioni, migliorie: si sviluppano i distretti specializzati nel fornire componenti, servizi e manodopera specifici. Ogni fase del processo, ogni componente e ogni servizio raggiunge una sofisticazione estrema, l’insieme raggiunge un elevato grado di eccellenza. In questa fase occorrono non soltanto tanti imprenditori, ma anche e soprattutto tante scuole tecniche e professionali, percorsi di apprendistato. Qui per noi cade l’asino: le nostre scuole pubbliche arrivano ad aggiornare i programmi con 30 anni di ritardo rispetto all’innovazione tecnologica. Ci sono fior di istituti tecnici che sono rimasti all’insegnamento dell’uso del pacchetto di Office nel corso di informatica, mentre oggi nessuno studente dovrebbe giungere a un diploma di scuola superiore senza saper usare i principali linguaggi per creare nuovo software e senza saper creare e gestire una rete. Queste sono competenze basilari ormai per riuscire a svolgere la stragrande maggioranza dei lavori;

-          l’ultima fase è quella della maturità: il concetto è dato per scontato, il prodotto non può più essere migliorato in modo significativo, la produzione sta diventando eccessiva. Non si crea più nuova ricchezza, né nuova conoscenza. Lo sviluppo del potenziale legato a quel concetto e a tutte le tecnologie che ne sono scaturite è terminato. Le zappe continueranno a essere prodotte e usate, ma non arricchiranno più intere società, così come ogni altro prodotto maturo, dal motore a scoppio alla calcolatrice digitale. Gli aiuti di stato e le protezioni tariffarie possono nascondere per qualche anno o per qualche decennio l’obsolescenza di quel settore economico, ma non ne fermano il declino. Si pensi a come le politiche industriali e scolastiche italiane degli anni ’80 e ’90 hanno tentato – inutilmente – di proteggere le nostre industrie tradizionali e i loro addetti, anziché stimolare l’innovazione competitiva e diffondere le nuove conoscenze tramite le scuole.

 

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