La percezione del pericolo, i media e la strategia di lungo termine

26/04/2021

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Il giornalismo si concentra sempre sugli eventi del giorno precedente e in base a questi offre analisi storiche, economiche, sociologiche più o meno approfondite e più o meno colorate di ideologia, a seconda dell’uditorio o dei lettori cui si rivolge. Gli analisti di geopolitica e gli strateghi studiano la storia e ne seguono le evoluzioni in atto allo scopo di immaginare e prevenire i pericoli prima che assumano dimensioni importanti. Se gli strateghi si lasciano influenzare dall’opinione pubblica, che a sua volta è forgiata dalle analisi giornalistiche, le quali per loro natura sono sempre in ritardo rispetto ai tempi utili per la prevenzione, gli stati non riescono a prevenire i pericoli in modo sufficientemente efficace e tempestivo per evitare le guerre.   

Geopolitical Futures riassume nel grafico a fianco le differenze nella percezione dei pericoli da parte dell’opinione pubblica americana nel 2011 e nel 2021. Dieci anni fa i pericoli principali sembravano l’Afghanistan, i paesi islamici e il terrorismo islamico. Ovviamente questi non erano più un pericolo per gli USA, perché dieci anni di guerra in Afghanistan e Iraq avevano fatto sviluppare al massimo il jihadismo all’interno dello stesso mondo arabo e proprio il jihadismo aveva destrutturato dall’interno i sistemi di potere dei governi esistenti. Le cosiddette primavere arabe furono la conseguenza di questa destrutturazione interna, a seguito della quale il mondo arabo oggi è grandemente indebolito e non è più un pericolo per l’Occidente. L’assalto portato agli USA nel 2001 con l’attacco alle Torri gemelle è stato trasformato dalla reazione degli USA in una serie di guerre civili interne al mondo arabo-islamico, di cui non abbiamo ancora visto la fine. Questa serie di guerre civili ha reso il mondo arabo-islamico privo di coesione e incapace di affrontare con successo l’evoluzione tecnologica e culturale in atto nel globo. Il solo paese ancora pericoloso è l’Iran, ma è pericoloso per gli altri popoli del Medio Oriente, non per l’Occidente. Più pericolosa per l’Europa è invece la situazione nel Sahel subsahariano e in Africa Occidentale.

La Cina è oggi percepita come il maggiore pericolo dall’opinione pubblica americana, con venticinque anni di ritardo. Meglio tardi che mai, ma ora difficilmente potremo evitare una lunga guerra fredda, con occasionali scoppi di violenza in piccoli paesi ai margini fra le due sfere di influenza. Venticinque anni fa l’Occidente ha compiuto una serie di gravi sciocchezze nella sua politica verso la Cina, frutto di visioni miopi e irrealistiche.

Chi scrive ha iniziato a commerciare con la Cina nel settembre 1969 attraverso la Francia, che sotto il generale de Gaulle strinse rapporti diplomatici con la Cina di Mao con tre anni di anticipo rispetto a tutti gli altri paesi del blocco occidentale. Nel 1972 sono stata fra i primissimi italiani ad andare in Cina e a ottenere (senza neppure averlo richiesto…) un contratto come agente per l’Italia dell’ente nazionale cinese per il commercio estero e a visitare con quattro ‘angeli custodi’ una Città Proibita aperta apposta per noi. Da allora fino al 2005 ho lavorato prima con decine, poi con centinaia di fabbriche cinesi lungo tutta la fascia costiera, ho avuto uffici in varie città della Cina, 13 joint ventures temporanee con fabbriche cinesi. Ho visto e in parte vissuto dal vivo tutta l’evoluzione interna, dalla Rivoluzione culturale alla rivoluzione digitale; ho studiato la storia della Cina; ho visto e ammirato la pragmatica e talora cinica spregiudicatezza dei Cinesi nell’adattare e riadattare i principi agli scopi da raggiungere di volta in volta, la loro straordinaria velocità nel cambiar rotta (anche perché l’informazione è tutta nelle mani del potere centrale); ho ripetutamente esplorato a piedi tutte le strade dei centri storici delle città in cui ho lavorato, entrando negli hutong, facendomi aprire templi chiusi da venti anni, cercando di parlare con i vecchi che aspettavano i bimbi fuori dagli asili o giocavano a carte sui marciapiedi, accanto a nuore che facevano il bucato nei catini con l’acqua del rubinetto comune, accanto a nipoti che facevano i compiti al sole con facce assorte e imparavano l’inglese ascoltando le lezioni quotidiane alla radio, diffuse dagli altoparlanti nelle piazze e per le strade, invece delle frasi di Mao diffuse dagli stessi altoparlanti fino a pochi mesi prima. Per il popolo cinese ho una grande ammirazione e quell’affetto che si sviluppa attraverso una frequentazione pluridecennale, a partire dalla giovinezza. Ma da imprenditrice ho imparato a ragionare in modo strategico e la sottovalutazione della Cina da parte degli occidentali negli anni ’90 mi ha riempito di stupore. Ho pensato che forse c’era qualcosa che non vedevo e non capivo io: possibile che capi di stato e di organizzazioni internazionali non vedessero e non capissero l’ovvio? Gli eventi successivi hanno confermato che non lo vedevano, perché ragionavano in ottica di breve periodo sia nel guardare all’indietro verso il passato storico, sia nel guardare in avanti verso il futuro.

Negli anni ’90 venne creato il WTO (World Trade Organization) apposta per permettere agli stati ex comunisti − o ancora comunisti come la Cina − di adeguarsi progressivamente a una serie di regole e ottenere così il libero accesso ai mercati dell’Occidente alle condizioni di ‘nazione più favorita’. Ma la fretta di avviare liberi commerci era talmente tanta che l’Occidente accettò che alcuni paesi ex comunisti, in primis la Cina, facessero finta di adeguarsi alle regole, muovendo soltanto i primi passi verso l’adeguamento. Perché tanta fretta? Perché l’Occidente era convinto di avere tutto da vincere nell’apertura – eppure era ovvio che non sarebbe stato così. Gli Americani pensarono che avrebbero avuto importazioni a bassissimo prezzo, con qualche danno a produzioni domestiche di prodotti industriali ormai obsoleti, ma in cambio avrebbero esportato alta tecnologia ad altissimo valore aggiunto e avrebbero attirato tutti i capitali cinesi, perché la Cina non aveva un mercato dei capitali e crearne uno avrebbe richiesto almeno cinquant’anni. Nel frattempo gli USA avrebbero avuto un flusso straordinario di capitali in cerca di investimento e remunerazione, da poter utilizzare per sviluppare la propria economia. Peccato che, come tutti coloro che non hanno esperienza di impresa, politici e amministratori pensassero che a sviluppare l’economia bastassero i capitali, mentre a sviluppare l’economia sono le idee e le invenzioni che servono alle persone. I capitali sono uno strumento, come è uno strumento una fresa. Con la fresa, come con i capitali, bisogna sapere come usare lo strumento per produrre qualchecosa di cui si ha già in mente l’idea, altrimenti la fresa è un ingombro inutile, così come i capitali. Finito il boom della nuova economia digitale, la mole di capitali alla ricerca di investimenti e di guadagni aveva bisogno di altre fonti di guadagno rapido, ma non ce n’erano più molte. Questa fu la causa degli investimenti folli in mutui subprime e catene di sant’Antonio alla Madoff, che originarono il crack finanziario internazionale del 2008, con il conseguente tracollo della finanza − e in parte anche dell’economia globale − per cinque anni.

Inoltre l’Occidente sottovalutò stupidamente l’intelligenza, la laboriosità e la caparbietà di quasi un miliardo e mezzo di Cinesi nell’impadronirsi di conoscenza e tecnologia e diventare concorrenti pericolosi anche in campo scientifico e tecnologico, quindi potenzialmente anche in campo militare. Il governo cinese lanciò apertamente la sfida all’Occidente nel 2015, con il famoso annuncio dell’iniziativa della Belt and Road (si veda il dossier a essa dedicato).

Ora l’Occidente pensa di poter contrastare l’avanzata cinese ponendo limiti al libero commercio, anche a costo di rinunciare ai capitali cinesi. In sostituzione anticipata degli investimenti esteri è stata creata una rete di banche centrali che collaborano fra di loro per mantenere un flusso illimitato di capitali senza scatenare inflazione (si spera), grazie al meccanismo dei prestiti interbancari automatici per compensare qualunque scompenso sui mercati (vedasi Il mondo è cambiato otto anni fa, ma non ce ne siamo resi conto). Adesso possiamo progressivamente ridurre l’interscambio dissennato (perché falsato dal fatto che la Cina non è davvero una economia di libero mercato) per ricostruire capacità produttive domestiche e proteggere o sviluppare la nostra tecnologia. Tutto verrà fatto in nome della protezione dell’ambiente e della svolta energetica green, il che è un’ottima idea, se riusciremo a tradurla in nuove realtà tecnologiche e quindi in nuova economia.

La politica più dissennata per noi Italiani è stata quella dell’Unione Europea che nel 2001 decise di abolire in soli tre anni ogni limitazione al commercio con la Cina. Il presidente della Commissione che prese questa decisione fu l’italiano Romano Prodi! In tre soli anni passammo dal non poter importare quasi nulla dalla Cina (occorrevano licenze rigorosamente contingentate e si pagavano dazi elevati) al poter importare quantità illimitate di qualunque cosa a condizioni di ‘nazione più favorita’. Questa liberalizzazione arrivava poco dopo l’ingresso nell’Unione dei paesi ex comunisti dell’Est europeo, dove la manodopera costava pochissimo, per cui molte fabbriche italiane, tedesche e francesi già avevano trasferito le produzioni, facendo entrare in crisi l’economia reale dell’Italia e della Spagna che persero competitività perché avevano costi della manodopera più alti e poco flessibili.

Dall’apertura prima ai paesi dell’Est poi alla Cina guadagnò molto la Germania, che vide aumentare enormemente le sue esportazioni sia verso i paesi dell’Unione sia verso la Cina, diventando molto più competitiva a livello globale grazie all’alta qualità e ai bassi costi dei prodotti ad alta tecnologia delle fabbriche tedesche nell’Est Europa. Per la Germania importare scarpe, abbigliamento o piastrelle dalla Cina anziché dall’Italia o dalla Spagna significava avere prezzi inferiori per i beni di consumo dei propri cittadini e aprire un nuovo grandissimo mercato ai suoi prodotti industriali ad alta tecnologia. L’Italia, che aveva un tessuto industriale basato soprattutto sulla piccola e media industria della moda e di prodotti semiartigianali di alta gamma, aveva tutto da perdere dalla concorrenza cinese e proprio niente da guadagnare. Se per motivi di politica internazionale l’apertura ci doveva essere, la si poteva applicare nell’arco di dieci anni, non di tre, verificando anche che l’adeguamento progressivo alle regole di mercato da parte della Cina fosse sostanziale. Perché l’Italia accettò di aprire i mercati alla Cina in tre anni, se aveva tutto da perdere? Forse contava in uno scambio di favori economici o finanziari con la Germania e i paesi del Nordeuropa, in nome della solidarietà europea? Nel 2012 abbiamo visto che la solidarietà europea di cui avevamo bisogno ci costava molto cara. Ora però forse anche l’Europa sta diventando davvero più solidale, in vista di una ormai incipiente guerra fredda con la Cina, che avremmo potuto evitare con una politica più accorta, di più lungo respiro.

 

                                                                                                                                                                         

Laura Camis de Fonseca

La sottovalutazione della Cina da parte degli occidentali negli anni ’90 mi ha riempito di stupore: ragionavano in ottica di breve periodo sia nel guardare all’indietro verso il passato storico, sia nel guardare in avanti verso il futuro

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