Il Venezuela nei ricordi di George Friedman

20/05/2019

Tratto da Geopolitical Futures del 9 maggio 2019

 

Ho passato molto tempo in Venezuela negli anni ’90. La ragione per cui ero lì non mi era chiara allora e non mi è chiara neppure oggi (Friedman lavorava allora per il Dipartimento di Stato degli USA, Ndt) ma mi ha dato una certa prospettiva su quello che oggi accade nel paese.

Era notte quando arrivai la prima volta all’aeroporto di Maiquetia. In fase di atterraggio riuscii a scorgere dall’aereo una montagna fittamente illuminata da quelle che pensai essere le luci delle strade della capitale, Caracas.

Ma scendendo dall’aereo mi resi conto che non era affatto Caracas quella che avevo visto. Risultò che ero piuttosto lontano dalla capitale e che la meravigliosa città che pensavo di aver visto era in realtà una baraccopoli – un barrio. Più che una montagna era una collina e le luci segnavano i camminamenti frastagliati fra i blocchi di insediamenti, tutti alimentati da elettricità rubata con centinaia di cavi illegali penzolanti dall’alto delle condutture, disordinatamente sparpagliati in tutto il barrio. La possibilità di un incendio catastrofico sembrava quasi certezza, eppure i residenti riuscivano a vivere la loro vita tranquillamente, deviavano anche l’acqua dalle tubature e gestivano i liquami come meglio potevano. I barrio ospitavano disoccupati e criminali, ma erano anche il luogo in cui molti poliziotti crescevano i figli: si mescolavano con il resto della città durante il giorno, poi la notte tornavano al barrio e alle loro famiglie.

In più occasioni fui invitato a pranzo in uno dei posti più belli che abbia visto nei miei viaggi. Era un club esclusivo, storico e meticolosamente curato, che si affacciava sulla città. Uomini e donne erano vestiti alla perfezione, con uno stile che rivelava una lunga tradizione elitaria. Mi era stato detto che era il club dei “proprietari della valle”. Mi era anche stato raccontato che Caracas un tempo era appartenuta soltanto a quelle poche famiglie. Durante le mie visite al club osservavo come a un tavolo si trattassero affari, a un altro politica, mentre la nuova generazione faceva conoscenza a un terzo. Ricordo il silenzio che avvolgeva il club. Non c’erano voci forti, né alcuna tensione apparente. Era un luogo di potere tranquillo, avvolto nell’agio e nella scioltezza.

 

Ebbi anche occasione di visitare la compagnia petrolifera statale venezuelana, la PDVSA, cioè il motore che alimentava l’economia venezuelana. La struttura era ben mantenuta. Ci lavoravano ingegneri, operatori di marketing, manager finanziari e addetti agli affari pubblici. Fu soltanto parlando con le persone ai vertici che l’illusione della tecnocrazia svanì dalla mia mente. Ai vertici non c’erano né i proprietari della valle né gli abitanti del quartiere: erano politici agguerriti e astuti che sapevano sorprendentemente poco sul business del petrolio, ma molto sul modo in cui la PDVSA si inseriva nel mondo della politica venezuelana con i suoi alti e bassi. Per questo erano lì. Pochi piani più in basso potevo parlare con un ingegnere petrolifero che si era laureato alla scuola specialistica in Texas, ma all’ultimo piano erano i ‘duri’ che gestivano davvero l’azienda. Alcuni erano chiaramente parte della vecchia élite consolidata, altri invece si erano fatti strada verso l’alto a spintoni, in un’alleanza precaria che pendeva sempre più a favore degli elementi più duri e più irrequieti. L’intero edificio era stato costruito su due fondamenta: da una parte c’erano gli esperti che mantenevano attivo il flusso del petrolio, dall’altra c’erano quelli che vivevano nel barrio, gli abitanti del quartiere, necessari per il lavoro di manovalanza ma esclusi da tutti i piaceri.

In Venezuela c’è molto più di quanto ho descritto, dal lago di Maracaibo alla giungla profonda che copre gran parte del paese. Ma negli anni ’90 i barrio, i discendenti dei proprietari della valle, gli uomini duri che controllavano la PDVSA e i tecnocrati che la gestivano mi sembrarono il nucleo centrale del paese. Un nucleo insufficientemente forte, che si spezzò.

Hugo Chavez divenne presidente grazie al sostegno del popolo dei barrio. Allo stesso tempo però i barrio avevano propri leader politici: i capi delle bande che controllavano i quartieri. Chavez non poteva ottenere il sostegno dei barrio senza il sostegno dei capi banda, perciò Chavez non ebbe altra scelta che occuparsi di loro. I ricchi ereditieri erano fuori della portata di Chavez. Gran parte della loro ricchezza era negli Stati Uniti, dove avevano anche una seconda cittadinanza. Molti di loro avevano lavorato con Chavez; avendo attraversato più capitoli della storia venezuelana, vedevano in lui soltanto un altro capitolo della stessa storia, niente di più.

Chavez ebbe difficoltà a colmare il divario tra le promesse politiche e la realtà sociale. Arrivò al potere rappresentando la voce dei barrio, ma il suo debito nei confronti dei potenti all’interno dei quartieri era gravoso: costoro volevano soldi, e li volevano subito. Chavez non si fidava completamente della struttura di comando militare (l’accusava di non aver impedito il colpo di stato del 2002), aveva quindi bisogno dei delinquenti del barrio, che lo avrebbero sostenuto nella misura in cui avesse incanalato aiuti verso di loro. Emerse così un nuovo ecosistema, dominato dall’alleanza di Chavez con i controllori effettivi dei barrio. A questo punto il problema numero uno per Chavez era trovare il denaro per mantenere questa coalizione. Eliminare le famiglie benestanti rimaste era cosa da poter fare soltanto con delicatezza. Era anche importante mantenere i rapporti finanziari internazionali su cui il Venezuela aveva sempre fatto affidamento. Quindi Chavez dovette ricorrere alla fonte già utilizzata dalla vecchia élite politica, la PDVSA. Però il bisogno di denaro di Chavez era più intenso e profondo di quello del vecchio regime. Mantenere i barrio contenti era molto costoso.

Chavez prese a deviare sempre più soldi dalle casse della PDVSA e così facendo ridusse il tenore di vita dei dipendenti dell’azienda. All’inizio costoro riponevano grandi speranze in Chavez, poi si rassegnarono all’idea che nulla era cambiato, infine cominciarono a essere impauriti dal potere dei barrio e delle persone inviate a spremere la PDVSA. Iniziò allora una vasta fuga di dipendenti della PDVSA verso le aziende petrolifere di tutto il mondo. Presto la carenza di professionisti nella PDVSA divenne un altro problema per Chavez, perché portò come conseguenza il declino dell’azienda. Più Chavez spremeva l’azienda, meno otteneva. I suoi sostenitori si aspettavano ricompense crescenti, mentre lui sapeva che non avrebbe potuto elargirle.

I barrio divennero irrequieti, la classe media e i ricchi ereditieri fuggirono. Arrivarono i Cubani. In cambio di petrolio a prezzi scontati, Cuba agì come la guardia del corpo del regime di Chavez. Gli agenti cubani erano duri, ben addestrati e poco abituati a essere contraddetti. Così il regime, ora guidato da Nicolas Maduro, è sopravvissuto fino a oggi, grazie al sostegno dei Cubani e di quelli che nei barrio si aspettano ancora di essere ricompensati per la loro lealtà.

I barrio di oggi sono sempre come quelli che ho visto arrivando la prima volta. I proprietari della valle oggi siedono nei loro club in California e in Francia, dopo aver programmato scaltramente la propria fuga. È stato il deterioramento della PDVSA a tagliare le gambe al regime. Ma Chavez non aveva scelta. Fu eletto promettendo più di quanto potesse offrire a uomini che non accettavano che le promesse venissero disattese.

Forse il finale più significativo è la storia degli alti dirigenti della PDVSA e dei loro alleati politici. Nel 2002 organizzarono un colpo di stato contro Chavez. Chavez fu arrestato e detenuto in un’isola al largo della costa venezuelana, ma improvvisamente comparve al Miraflores Palace a Caracas, dove si erano radunati i suoi ministri e sostenitori. Si racconta che i golpisti si misero a litigare fra di loro su chi avrebbe assunto quali poteri dopo il golpe, dimenticando di controllare che Chavez rimanesse sotto chiave. Così il presidente riuscì a fuggire, riprendere l’aereo e far ritorno alla capitale. Il colpo di stato fallì e Chavez continuò a governare fino alla sua morte nel 2013. E questa storia ci dice molto sulla realtà del Venezuela.

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