La BRI e la strategia cinese sui mari

13/12/2018

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Il 7 settembre 2013, in un discorso all’Università Nazarbayev di Astana, in Kazakistan, il presidente cinese Xi Jinping annunciava il lancio dell’iniziativa One Belt One Road, poi ridenominata Belt and Road Initiative (BRI), un gigantesco progetto di interconnettività su scala continentale che vuole far rivivere le antiche vie della seta, lungo le quali si sviluppò l’economia e la civiltà umana per 2500 anni, fino a quando l’economia e la civiltà presero le vie degli oceani, all’inizio dell’era moderna. 

L’iniziativa BRI comporterà uno strabiliante investimento di alcune migliaia di miliardi di dollari per costruire infrastrutture nei paesi asiatici. La Cina ha poi creato l’Asian Investment Infrastructure Bank, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari. Un anno più tardi un fondo di investimento di proprietà del governo cinese, il Silk Road Fund, ha contribuito con altri 40 miliardi di dollari.

La Belt and Road secondo i Cinesi è strumento per migliorare la connettività regionale e sviluppare un futuro migliore in tutta l’Asia. Ha già creato centinaia di migliaia di posti di lavoro al di fuori della Cina. Invece, secondo i suoi critici in Malesia, in India e negli Stati Uniti la BRI è un progetto di natura neocoloniale, che legherà gli altri paesi alla Cina con la servitù dei debiti da restituire e permetterà alla Cina stessa di esercitare un più stretto controllo sulle minoranze etniche delle regioni occidentali.

Guardando la mappa il piano della Cina appare davvero mozzafiato: mira nientemeno che a ricostruire la geografia eurasiatica in una forma che si adatti alla Cina. Non è la prima volta che la Cina compie un’opera del genere. Duemila anni fa, l’Impero Romano e l’Impero Cinese della dinastia Han avevano all’incirca le stesse dimensioni (circa 5 milioni di chilometri quadrati) e lo stesso numero di abitanti (circa 60 milioni), ma l’economia romana era probabilmente più grande del 50% rispetto a quella cinese. Il motivo di tanta disparità? La conquista da parte di Roma delle sponde del Mediterraneo. Spostare merci via mare è molto più economico che spostarle via terra. Portare una tonnellata di grano per 2.500 chilometri via mare da Alessandria d’Egitto al porto di Ostia costava allora all’incirca lo stesso che portarla via terra sugli asini per 30 chilometri da Ostia a Roma. Roma usò il Mediterraneo come una superstrada. Materie prime, truppe, tasse e uomini venivano trasportati rapidamente e a basso costo da un’estremità del Mediterraneo all’altra, generando tanta ricchezza che la città di Roma − dove le élite sperperavano i loro guadagni − raggiunse un milione di abitanti. L’attività di fusione dei metalli nell’Impero raggiunse allora un’intensità che non sarebbe più stata uguagliata fino all’inizio della rivoluzione industriale. Ma a partire dal III secolo d.C. Roma iniziò a perdere il controllo di sempre maggiori aree del Mediterraneo e l’economia iniziò a vacillare, finché nel V secolo crollò.

Gli imperi precedenti avevano usato i grandi fiumi come il Tigri, l’Eufrate o il Nilo per il trasporto e la comunicazione, ma nessuna di queste vie d’acqua poteva competere con il potenziale economico di un intero mare. L’Impero Cinese della dinastia Han, più o meno contemporaneo a quello di Roma, faceva eccellente uso del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro, ma la quantità dei commerci e dei trasporti non poteva essere pari a quelli dell’intero bacino del Mediterraneo.

La BRI mira a ricostruire la geografia eurasiatica in una forma che si adatti alla Cina. Come il Piano Marshall, riguarda tanto la diplomazia e il potere di persuasione quanto le infrastrutture

Soltanto nel 600 gli imperatori cinesi trovarono una soluzione: avrebbero creato l’equivalente artificiale di un mare scavando il Grande Canale, cioè 2000 chilometri di canali larghi 4 metri che collegavano il Fiume Giallo al Fiume Azzurro. Non aveva il potenziale di un vero mare, ma quando persone e capitali presero a spostarsi a sud mentre il riso si spostava a nord utilizzando il canale, l’economia esplose. I canali − probabilmente il più grande progetto infrastrutturale del mondo premoderno – “portavano infiniti benefici alle persone”, come afferma uno studioso del VII secolo. Nel 700 la città di Chang’an era grande come Roma al suo apice, e per i successivi quattro secoli la Cina fu la maggiore potenza economica mondiale.

Sebbene nessuno abbia mai più unificato il Mediterraneo, dal XV secolo gli europei occidentali hanno fatto ancora meglio. Sfruttando nuovi tipi di navi e cannoni (entrambi inizialmente sperimentati in Cina), collegarono gli oceani Atlantico, Indiano e infine Pacifico in un unico sistema commerciale. Dominare le onde diede loro il dominio sulla terra, per cui poterono abbattere gli imperi indigeni delle Americhe nel XVI secolo, quelli dell’India nel XVIII e quelli della Cina nel IX. Da quel momento l'Occidente è stato il colosso del mondo.

La situazione geostrategica che la Repubblica Popolare Cinese ereditò nel 1949 fu il frutto di questa rivoluzione post XV secolo. Soltanto le economie in grado di accedere liberamente agli oceani del mondo potevano sperare di crescere rapidamente − e quell’accesso era già saldamente nelle mani degli Americani. Una catena di paesi alleati degli Americani, dal Giappone alla Corea del Sud, da Taiwan alle Filippine e a Singapore, chiudeva alla Cina il libero accesso agli oceani.

Mao Zedong rispose chiudendosi verso l’interno, sviluppando la Cina dalle proprie risorse: i risultati furono carestia e stagnazione. Di fronte alla prospettiva di catastrofi ancora peggiori, i successori di Mao capirono che la loro unica opzione era cercare l’accesso agli oceani, anche se voleva dire accettare le condizioni degli Americani. Il risultato fu un miracolo economico che in pochi anni sollevò mezzo miliardo di Cinesi dalla povertà estrema, ma soltanto grazie all’accettazione americana, all’interno di istituzioni e mercati globali dominati dagli Americani.

Xi Jinping sta ora tentando di uscire da questo sistema. Persegue due linee di attacco: la prima è l’assalto frontale a quella che gli strateghi cinesi chiamano “la prima catena insulare” a oriente e a sud delle coste della Cina, con la costruzione di basi militari nel Mar Cinese Meridionale e una politica volta a convincere gli alleati degli Americani ad abbandonare l’alleanza. La seconda linea d’attacco è l'iniziativa Belt and Road, con cui la Cina intende costruire una rete di ferrovie, strade e porti che le daranno non soltanto il controllo del territorio, ma anche l’accesso senza ostacoli all’oceano Indiano e quindi a tutti gli altri mari. Migranti e capitali usciranno dalla Cina; le materie prime vi entreranno. Così le province occidentali arretrate e povere godranno di un boom economico spettacolare, come quello che le sue province orientali hanno goduto dopo la morte di Mao, e la “crescita pacifica” della Cina sarà completa.

Nel XIX secolo anche le potenze occidentali si imbarcarono in grandi progetti infrastrutturali per ridisegnare la geografia a loro vantaggio, ad esempio con la costruzione dei canali di Suez e Panama e della ferrovia transcontinentale americana. Ma la versione cinese del XXI secolo ha ben poco in comune con il colonialismo vecchio stile e la conquista di terre con la violenza. Somiglia di più al piano Marshall con cui gli Stati Uniti utilizzarono l’1% del PIL per aiutare a ricostruire le economie europee in frantumi dopo la guerra.

Come il Piano Marshall, la Belt and Road riguarda tanto la diplomazia e il potere di persuasione quanto le infrastrutture. Ricorrendo al palese tornaconto personale, gli Stati Uniti non solo fecero in modo di rendere gli Europei abbastanza ricchi da comprare le importazioni americane, ma li portarono a voler far parte di un nuovo ordine globale dominato dagli Americani. La Belt and Road Initiative ha obiettivi sorprendentemente simili. “Lo spirito della Via della Seta”, spiega l’agenzia stampa Xinhua, è una questione di “solidarietà e fiducia reciproca, uguaglianza e beneficio reciproco, inclusività, disposizione a imparare gli uni dagli altri e cooperazione nella ricerca di soluzioni vantaggiose per tutti”.

Il tradizionale strumento strategico di una potenza di mare come gli Stati Uniti per fronteggiare i pericoli provenienti da una potenza di terra come la Cina consiste nel crearle problemi interni. Gli Stati Uniti potrebbero lanciare un’offensiva diplomatica ed economica in Asia Centrale per competere con le lusinghe cinesi. Non sarebbe facile, perché la Belt and Road Initiative è molto popolare e apprezzata in gran parte dell’Asia centrale e meridionale. Non rappresenta un pericolo per la sovranità di quei paesi, ma potrebbe aumentarne sensibilmente il PIL.

Ma un problema c’è: il Piano Marshall fu progettato per rendere gli Stati Uniti e i loro alleati più ricchi e più sicuri creando una coalizione di democrazie libere. La Belt and Road Initiative, al contrario, sembra progettata per rendere la Cina e i suoi alleati più ricchi e più sicuri creando una coalizione di regimi autoritari, uniti dall’opposizione condivisa alla democrazia. Che non è un problema da poco.

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