Germania: crisi dello sviluppo in arrivo?

04/07/2018

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Le prospettive di crescita dell’economia tedesca sono buie. Anche le previsioni per il 2018 vengono riviste al ribasso. Si tratta di un fenomeno contingente, passeggero? No, si tratta delle prime avvisaglie di una crisi strutturale. La Germania ha conosciuto due ‘miracoli economici’ dal dopoguerra in poi, ma anche il secondo ‘miracolo’ si sta esaurendo.

Il primo miracolo fu la rapidissima ripresa del dopoguerra, nonostante la sconfitta e la distruzione. Ma le distruzioni avevano riguardato soprattutto le città e i trasporti, non la struttura produttiva. Quella fu danneggiata, ma non distrutta. La possente macchina industriale creata da Hitler uscì dalla guerra con relativamente pochi danni e permise una rapidissima ripresa economica, anche grazie alla crescita demografica (30% di popolazione in più dal 1949 al 1970) dovuta sia alle nascite sia all’importazione di mano d’opera da altri paesi, in primo luogo l’Italia e la Turchia. Senza contare i molti miliardi di sostegno americano per la ricostruzione (Piano Marshall) e per la difesa (NATO).

Il secondo miracolo tedesco si ebbe con la riunificazione fra la parte est e la parte ovest del paese alla caduta dell’Unione Sovietica. Si trattò di un’impresa immensa e molto costosa. Lo stato tedesco si indebitò per dare subito a tutti i cittadini della parte est assistenza sanitaria, pensioni, stipendi uguali a quelli dell’ovest, oltre che per costruire infrastrutture di ogni genere là dove mancavano. Ma la Germania poté contare su un’enorme riserva di mano d’opera a basso costo negli altri pasi dell’Est Europa. Costruì nuove fabbriche nei paesi dell’Europa dell’Est per delocalizzare la produzione e così raggiunse alte vette di produttività pro capite e per unità di investimento. Questo avviò il boom delle esportazioni, mentre l’adozione della moneta comune nell’eurozona proteggeva la Germania dal rischio di rafforzamento del valore della moneta, che avrebbe reso i suoi prodotti meno competitivi.

La delocalizzazione delle fabbriche provocò un forte aumento della disoccupazione nella Germania stessa, che obbligò i sindacati ad accettare una serie di riforme radicali, che portarono alla cosiddetta co-gestione delle aziende e alla spartizione degli utili fra lavoratori e investitori. Questo portò la pace sociale e l’aumento della produttività anche all’interno della Germania. L’economia prese a crescere a una media del 4% l’anno, trainata dalle esportazioni. Nel 1991 l’export rappresentava il 27.3 % del PIL tedesco, nel 2016 il 58%, tenendo conto anche dell’export infra-europeo! Alcuni settori sono cresciuti molto più di altri, anche le differenze sociali fra ricchi e poveri sono aumentate moltissimo. 

Ora però non ci sono più nuove riserve di mano d’opera a basso prezzo, a meno che non si accettino grandi quantità di immigrati da altri continenti, possibilmente già selezionati nel paese di primo arrivo, cosa alla quale gli altri paesi europei si oppongono veementemente − ed è chiaro perché. 

La popolazione tedesca invecchia e inizia a contrarsi perché la natalità è bassissima, perciò non offre la possibilità di aumentare i consumi interni. Il grafico a fianco mette a confronto la struttura demografica tedesca del 1967 e quella attuale.

Né possono essere in espansione i mercati tradizionali di vendita all’estero: l’Europa è satura di prodotti tecnologici tedeschi e non ha una popolazione in crescita, gli USA stanno imponendo nuovi dazi, la Russia è colpita da sanzioni internazionali che politicamente non si possono aggirare. E la convinzione dei consumatori che la tecnologia tedesca sia sempre la più affidabile è stata intaccata dallo scandalo dei test truccati del motori diesel. Mentre il settore finanziario tedesco è tutt’altro che eccellente, le banche sono sottocapitalizzate e poco efficienti.

L’economia tedesca rimane la più florida del Continente, però il suo potenziale di crescita è grandemente ridotto. Occorre un cambio di marcia, un diverso orientamento, una politica che apra nuovi mercati di vendita e nuovi mercati di produzione a costi inferiori di quelli europei. L’Africa forse? 

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