Che storia viviamo?

25/06/2018

È difficile non sentirsi spaesati e stupiti in queste settimane: tutto attorno a noi sembra cambiare repentinamente. O è soltanto una percezione nuova della realtà, attraverso un linguaggio molto diverso da quello cui eravamo abituati? Cerchiamo di capirlo. La democrazia sta mostrando come opera durante una crisi di vasta portata ed è uno spettacolo interessante, indipendentemente dall’opinione che ognuno di noi ha degli esiti.

Nell’arco di poco più di un anno la politica di larga parte dell’Occidente ha cambiato linguaggio, ha cambiato la narrazione degli eventi in atto e la visione del ruolo dei protagonisti. Il fenomeno è iniziato con Brexit, poi si sono susseguiti l’elezione di Trump, la crescita dei partiti ‘sovranisti’ in Europa, i cambi di governo, la negazione aperta dell’utilità delle organizzazioni sovranazionali. Non è chiaro come questa nuova narrativa forgerà gli eventi successivi, come il cambiamento di ruolo di tutti i protagonisti cambierà l’intera narrazione domani e dopodomani e fra dieci o venti anni. Per ora siamo in fase di demolizione del vecchio progetto, non si vedono le linee del progetto nuovo.

Il cambiamento politico è avvenuto quando la realtà quotidiana e la narrativa mainstream politicamente corretta hanno raggiunto un tale livello di disallineamento che tutta la popolazione se ne è accorta. Allora l’elettorato ha abbandonato la vecchia classe dirigente e ha abbracciato l’opposizione, non perché la politica dell’opposizione fosse certamente migliore, ma perché quella vecchia era evidentemente inefficace, basata su presupposti non realistici e su convenzioni di linguaggio pubblico che talora suonavano ridicole, come la proibizione di chiamare islamico o islamista o jihadista il terrorismo islamico, ignorando i proclami dei terroristi stessi e dei loro sostenitori. O il continuare a definire ‘rifugiati’ e ‘profughi’ le migliaia di giovani e forti Africani maschi che raggiungevano le nostre coste con l’aspirazione (del tutto legittima) di una vita migliore in Europa.

Quando questi fenomeni avvengono in paesi non democratici il regime aumenta la repressione e il governo non cambia. Ma se la politica non diventa evidentemente più efficace prima o poi si arriva al colpo di stato, alla ribellione aperta e talora alla guerra civile. Nei casi più fortunati il regime si affloscia su se stesso ed esala l’ultimo respiro senza fracasso, come avvenne all’Unione Sovietica nel 1989.

Le evidenze di cambiamenti profondi della realtà si accumulano da almeno vent’anni sotto gli occhi di tutti. Che gli USA non potessero reggere il ruolo di regolatori e poliziotti del mondo, né quello collegato di motore economico del mondo, è apparso evidente dal 2001: attacco alle torri gemelle, jihadismo inestirpabile in Afghanistan e in tutto il Medio Oriente, crisi finanziaria del 2008 e successive crisi economiche a cascata, crescente rivalità economica della Cina, crescente sviluppo delle attività clandestine congiunte di narcotrafficanti, trafficanti di armi e trafficanti di uomini in tutto il sud del mondo, dal Sudamerica al Sud-est asiatico, attraverso l’Africa subsahariana e il Pakistan. Il canovaccio dell’ordine globale deve cambiare, occorre ridefinire i ruoli di tutti gli attori e sostituire gli scenari, perché la commedia è cambiata e non la si può interpretare utilizzando i vecchi dialoghi e i vecchi fondali.

Deve cambiare l’Europa. L’evidenza che l’Unione Europea non è affatto un’unione l’abbiamo vista nel suo atto di nascita, nel trattato di Maastricht del 1992, quando alla decisione di procedere verso l’integrazione si accompagnò la decisione di far compiere ogni passo verso l’integrazione non a un parlamento eletto dai popoli, né a un organo politico sovranazionale eletto dai popoli, ma dai governi dei singoli stati, che nel processo avrebbero dovuto auto-esautorarsi. Questo meccanismo, unito all’ampliamento a 29 stati, era la garanzia che non si sarebbero mai fatti passi avanti. Che non si sia successivamente trovato un terreno comune neppure per scrivere e approvare il primo articolo di una Costituzione dell’Unione ne fu riprova. L’Unione era nata morta, ben prima del successo di Orban in Ungheria o di Salvini-Di Maio in Italia.

Molti di noi hanno lungamente sperato che gli eventi futuri avrebbero permesso di arrivare a un’unione federale vera, partendo da un gruppo ristretto di stati, fra quelli che già avevano aderito all’Eurozona. Ma il leader economico e demografico dell’Eurozona, la Germania, avrebbe dovuto farsi promotore e guida di questa unione. La crisi finanziaria nell’eurozona pose fine a questa speranza. La Germania prese necessariamente la guida, ma nell’interesse della Germania stessa (cosa del tutto legittima e anche ovvia per uno stato nazionale), non per offrire e in qualche modo imporre agli altri paesi un nuovo contratto politico-economico-sociale che portasse all’unione federale. Insieme alla ciambella di salvataggio la Germania avrebbe potuto offrire agli altri paesi dell’eurozona di salire su di una barca comune, invece lanciò alcune ciambelle che evitarono l’annegamento a Grecia e Italia, ma lasciò i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) a galleggiare a malapena sulle acque profonde dei loro debiti e delle loro burocrazie ed economie più o meno inceppate. La Germania ha paura di prender davvero la guida d’Europa, ma se non la prende la Germania nessun altro stato lo può fare, nessuno ha la forza di trascinare la Germania al seguito.

La questione dei migranti oggi è diventata l’argomento ‘caldo’ del contendere in Europa. È una pallina da ping-pong che i giocatori usano per sfidarsi. Più diventa un argomento per sfide politiche, meno si chiarisce come problema e più si perdono di vista le possibili vie di soluzione. Si gioca a colpi di numeri, di princìpi, di regolamenti internazionali. Ma chi sono queste persone? Da dove vengono, che cosa vogliono, dove vogliono andare, perché? Che tipo di scolarità hanno, che tipo di capacità, che tipo di aspirazioni? Che percorso hanno fatto, chi li ha aiutati a compierlo, chi hanno pagato per compierlo? Tutte queste informazioni non le abbiamo. Giornali e TV ci forniscono esempi, ma non sappiamo quanto siano davvero rappresentativi. Non ci sono dati certi. I dati forniti da fonti diverse contrastano fra di loro in modo molto significativo. I numeri totali degli arrivi tendono a essere simili, ma non ci aiutano ad avere informazioni sulla composizione della realtà. Si tratta di persone, ognuna con una storia e un’origine diversa, una volontà e un obiettivo proprio, capacità proprie, necessità proprie. Ognuno dovrebbe esser conosciuto e ‘classificato’ secondo decine di criteri diversi per poter avere una visione chiara del fenomeno. Invece non ne sappiamo quasi nulla. Questo davvero mi scora e mi preoccupa. Come pensiamo di affrontare una questione che conosciamo pochissimo? Con emozioni e paure? Con ideologie astratte? Oscillando fra la caccia alle streghe e il buonismo, a seconda della giornata?

La questione dei migranti è un argomento caldo anche nelle Americhe, non soltanto per motivi economici o di sicurezza. La vera questione di fondo è che larga parte degli USA oggi hanno già una percentuale molto elevata, talora maggioritaria, di popolazione di lingua ispanica. Gli USA stanno diventando uno stato bi-nazionale, in cui si parlano due lingue diverse e le persone tendono a vivere in circoli diversi, non comunicanti fra di loro. Davanti ai grandi numeri il melting pot (il crogiolo) non funziona più. In alcune aree del paese gli ispanici già possono vivere per decenni sempre soltanto con altri ispanici senza fondersi con il resto della popolazione, perciò non adottano più la lingua e la cultura anglosassone, che è sempre stata la chiave di accesso all’integrazione e il punto di partenza per la scalata sociale ed economica. È un fenomeno che può essere pericoloso per la coesione sociale e politica del paese, se aumenta ancora. Molti ne sono preoccupati già da almeno un decennio, ma la loro voce è sempre stata messa a tacere con l’accusa di razzismo. Sicuramente molti di loro hanno votato per Trump.

 

Laura Camis de Fonseca

Il canovaccio dell’ordine globale deve cambiare, occorre ridefinire i ruoli di tutti gli attori e sostituire gli scenari, perché la commedia è cambiata e non la si può interpretare utilizzando i vecchi dialoghi e i vecchi fondali

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