Il mondo di Trump

08/12/2017

I modi del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele da parte degli USA illustrano chiaramente i compiti che Trump si è assunto in questo momento della storia americana, su mandato dell’elettorato:

-         sganciare gli USA dai lacci e lacciuoli delle istituzioni internazionali create dopo il 1945 per gestire il mondo bipolare del dopoguerra, perché quel mondo non esiste più;

-         liberare gli USA dal peso di impegni globali che non può più sostenere né economicamente, né militarmente, né politicamente.

Gli USA di Donald Trump prendono atto della realtà e riprendono piena libertà di iniziativa, invitando gli altri paesi a percorrere la stessa via, anziché dipendere da istituzioni internazionali obsolete e da impegni multilaterali privi di limiti temporali. 

Gerusalemme è di fatto la capitale di Israele fin dalla fondazione dello stato nel 1949, lo è di diritto a partire dal 1980. Nel 1977 lo stesso presidente egiziano Anwar Sadat tenne il suo celebre discorso di pace alla Knesset (il parlamento israeliano) a Gerusalemme. Fu un riconoscimento di fatto di Israele e della sua capitale Gerusalemme, che gli islamisti gli fecero pagare con la vita (Sadat fu assassinato nel 1981 dai Fratelli Musulmani). Ma gli equilibri internazionali non permettevano il riconoscimento della situazione di fatto, perché la Lega Araba non la voleva accettare e la Lega Araba controllava il mercato globale del petrolio e costituiva l’ago della bilancia nella Guerra fredda. Così le istituzioni internazionali, create dagli stati vincitori nel dopoguerra ed egemonizzate dagli USA, sostennero una finzione complessa e costosa, molto dolorosa sia per i Palestinesi sia per gli Israeliani: decisero di congelare la situazione del cessate il fuoco della primavera del 1949, facendo finta che non esistessero le successive modifiche portate da altre guerre e da decenni di vita e di attività di milioni di persone sul territorio. 

Questo ha significato mantenere i Palestinesi a spese dell’ONU in cosiddetti campi profughi che nel frattempo sono diventati grandi città, inducendoli a vivere in un mondo immobile, quasi privo di alternative economiche e politiche alla guerriglia e al terrorismo internazionale. Ha significato anche mantenere gli Israeliani nella necessità di affrontare costantemente guerriglie, atti di terrorismo, attacchi dei paesi arabi, a seguito dei quali comunque nulla poteva cambiare in modo davvero significativo a favore né degli uni né degli altri. In cambio dell’immobilità gli USA garantivano gli equilibri e sostenevano sia le iniziative di pacificazione, sia la sopravvivenza economica e/o militare e politica delle parti in causa, cioè dei Paesi arabi, di Israele e dei Palestinesi.

Gli USA agivano sotto l’egida dell’ONU e delle sue agenzie, cui fornivano sia la maggioranza dei finanziamenti sia il necessario sostegno politico e militare. Ma era lampante che l’ONU agiva come estensione del governo americano: gli accordi internazionali si firmavano sempre alla presenza dei presidenti americani, in territorio americano, come si vede nelle immagini in testata.  

Ora gli USA di Trump prendono atto del fatto che gli equilibri globali sono cambiati, che purtroppo presto sarà la Cina la prima potenza economica e militare al mondo e che per fortuna gli Arabi non controllano più che una frazione del mercato dell’energia. Gli USA non possono attardarsi oltre: debbono elaborare strategie per il mondo futuro, che sarà multipolare e vedrà gli USA impegnati a difendere la propria economia e la propria egemonia tecnologica e militare contro rivali molto potenti. Le istituzioni multilaterali e globali create per gestire gli equilibri della Guerra fredda oggi costituiscono soltanto vincoli e costi inutili per un paese che deve tornare a pensare ‘America first’, perché il primato dell’America è in pericolo. I partner internazionali sono stati avvertiti: gli Usa non firmeranno più accordi multilaterali vincolanti per un tempo indefinito, senza scadenze, gli accordi multilaterali preesistenti non sono più ritenuti senza scadenza, eternamente vincolanti, ma saranno ridiscussi caso per caso, paese per paese. E ogni paese è invitato a fare altrettanto, se vuole proteggere la propria economia e la propria posizione.

Palestinesi e Israeliani sono stati invitati da Trump a mettersi d’accordo fra di loro per definire le questioni irrisolte, prendendo atto della realtà. Abu Mazen ha giustamente commentato che l’America rinuncia così a farsi garante del processo di pace, esatto: non perché l’America sia pregiudizialmente contraria agli interessi palestinesi, ma perché non ha più interessi nazionali da difendere mantenendo lo status quo del 1949.

Ora è chiaro che il destino dei Palestinesi e degli Israeliani non è nelle mani degli USA, ma nelle mani proprie e in quelle degli stati della regione. Occorrerà tempo per capire che cosa potrà succedere, ma una cosa è certa: si riaprono possibilità a entrambe le parti, che sono rimaste bloccate per decenni.

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