Il Continente Selvaggio
L’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale

31/03/2017

Riprendiamo la recensione di Barbara Curli

 

Il libro riprende le suggestioni dei primi capitoli di Dopoguerra di Tony Judt, al quale Lowe rende credito, che aveva riflettuto su come la «assuefazione ad uccidere» del tempo di guerra e l’«abisso morale» dell’esperienza delle occupazioni si fossero trasformati in violenza del tempo di pace. Lowe procede con vivacità narrativa facendo largo uso di dati e statistiche, «montati» con approccio critico e partecipazione personale. È d’altronde difficile non venire coinvolti dalla spaventosa sofferenza umana prodotta da violenze, massacri, furti e saccheggi, abbrutimento, soprusi e umiliazioni, che disegnano le devastazioni fisiche e materiali, umane e morali, dell’Europa uscita dalla guerra, a Est in forme e con entità assai più drammatiche che a Ovest.

La prima parte (l’eredità della guerra) si apre su un’Europa come «luogo caratterizzato dall’assenza» e dalla solitudine: ogni famiglia contava dei morti, interi villaggi erano scomparsi, intere comunità cancellate. L’assenza e la solitudine più evidenti erano quelle degli ebrei, per i quali con la fine della guerra si aprì una nuova fase di persecuzioni e di antisemitismo diffuso, la Polonia era «di gran lunga il paese più pericoloso per gli ebrei dopo la guerra», ma non l’unico. E poi, la vendetta, «sfrenata», «insaziabile», che fu «il fondamento su cui l’Europa postbellica fu ricostruita». In parte, la vendetta aveva l’obiettivo di ristabilire una qualche forma di «equilibrio morale», di risarcimento: pratiche come la rasatura del capo delle donne ebbero il «merito di avere ridotto la violenza» in alcune comunità, dando un nuovo «senso di orgoglio collettivo». In parte, la vendetta perseguiva finalità proprie, per esempio razziali, come è evidente nelle pulizie etniche, negli eccidi di massa e nelle guerre civili, cui è dedicata la seconda parte del libro. Ovunque, la violenza sui corpi delle donne fu l’emblema della umiliazione morale nella quale era piombato un intero contenente. Gli stupri, che durante la guerra avevano assunto dimensioni «al di là di ogni proporzione conosciuta in precedenza», continuarono sistematicamente nel dopoguerra, e anche qui motivi razziali e culturali ne ampliarono le dimensioni e l’orrore: la stessa lettura dei documenti di archivio è «difficilissima da sopportare» anche per lo storico.

L’ultima parte del libro è dedicata alla resistenza alla sovietizzazione nell’Europa dell’Est e nei paesi baltici, «uno dei conflitti più sottovalutati del XX secolo», che durò a lungo, anche per molti anni, «nella vana speranza che alla fine l’occidente si sarebbe mosso», e che fece decine di migliaia di vittime. Lowe invita a riflettere in definitiva su quanto sia tradizionale il nostro modo di pensare la guerra mondiale: «alcune delle peggiori atrocità della guerra non avevano niente a che fare» con il conflitto tra Asse e Alleati, ma con un «odio» che traversava il continente, che continuò e che fu facilmente e variamente usato nel dopoguerra e che è sempre pronto a riemergere, come hanno dimostrato le guerre del dopo guerra fredda.

 

 

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