L’approccio di Trump verso l’ISIS

26/01/2017

Nel discorso inaugurale il presidente Trump si è impegnato a sconfiggere l’ISIS. Sembra un’affermazione in contrasto con precedenti affermazioni sul ritiro da impegni militari che non siano di diretta utilità per gli USA. L’ISIS agisce in terre lontane dagli Stati Uniti, è un pericolo regionale, non globale, che potrebbe essere lasciato alle potenze regionali, come ha fatto l’amministrazione Obama. Ma è probabile che Trump faccia un ragionamento più ampio sulla pericolosità del radicalismo islamista, partendo da una visione storica e ideologica diversa da quella fin’ora prevalente nella politica degli USA.

L’ISIS è per Trump (ma anche per l’opinione pubblica di molti paesi nel mondo) il simbolo e la punta di lancia dell’islamismo politico, risorto trionfalmente in tutto il mondo islamico da alcuni decenni. Se gli si permette di vincere, di controllare territori e risorse industriali e aspirare a vittorie sempre più ampie, l’islamismo politico può diventare rapidamente un pericolo davvero globale. Questa è probabilmente la convinzione in base alla quale Trump disegna la sua politica.

Il nemico principale dell’ISIS (sunnita) nella regione è l’Iran (sciita). L’amministrazione Obama ha cercato e raggiunto l’accordo con l’Iran per la sospensione delle sanzioni proprio per sostenerne il ruolo regionale anti-ISIS. Volendo disimpegnare gli USA dalla regione, Obama (insieme a molti strateghi) pensava convenisse sostenere i nemici regionali dell’ISIS per contenere il pericolo all’interno della regione. Ma Trump (insieme ad altri strateghi) è contrario all’accordo raggiunto con l’Iran, perché pensa che il pericolo islamista vada affrontato e sconfitto in toto, altrimenti diventa un pericolo globale per lungo tempo.

L’islamismo iraniano non è meno pericoloso sul piano politico di quello dell’ISIS: ha dato l’avvio alla rinascita dell’islamismo politico nel mondo, ha la forza di un apparato statale forte e funzionante, il prestigio di una cultura millenaria alle spalle, non appare barbarico come quello dell’ISIS. Sconfiggere l’ISIS rafforzando l’Iran non pare a Trump una politica lungimirante, ma piuttosto una politica di breve periodo e di breve respiro. Contro l’islamismo politico Trump probabilmente vede una battaglia culturale e politica di lungo periodo, paragonabile a quella condotta per quarantacinque anni contro il comunismo ai tempi dell’Unione Sovietica.

Il mondo islamico si estende dal Marocco alle Filippine, dall’Asia Centrale all’Africa. Include circa un quarto dell’umanità: 1,6 miliardi di persone. Ha una storia millenaria di organizzazione del potere politico su grandissimi territori (l’impero Mogul, il Califfato). Non ha mai abbandonato l’aspirazione al potere politico per un processo interno di laicizzazione, ma v’è stato costretto dalla superiorità militare, economica e politica prima europea, poi americana, dal 1700 al 1980. Fu proprio la rivoluzione iraniana del 1979 a segnare la rinascita dell’islam politico nel mondo, seguita dalla vittoria islamista in Afghanistan negli anni ’80, dallo sviluppo di al Qaeda e da tutti gli eventi che conosciamo dall’11 settembre 2001 in poi.

Non c’è differenza sostanziale fra l’islam politico e l’islam religioso: storicamente e teologicamente sono lo stesso fenomeno. Le differenze consistono nei metodi utilizzati per raggiungere il potere politico, cioè il potere di regolare la società: la predicazione e la convinzione, oppure varie forme di resistenza e di guerra, fino al terrorismo.

Fra i non islamici si danno due punti di vista diversi, due diverse strategie per contrastare l’islamismo:

- allearsi con alcuni islamisti contro altri islamisti in ambito militare e distinguere (artificiosamente) fra islam religioso e islam politico in ambito culturale. È la politica seguita dall’Occidente sino ad ora;

- considerare l’islamismo un nemico ideologico e culturale da combattere su tutti i fronti in modo inesorabile e porre gli islamici di fronte alla necessità di riflettere e decidere sulla accettazione o sul rifiuto di istituzioni laiche. Questa politica mette con le spalle al muro anche paesi come la Turchia (che sta diventando islamista, dopo decenni di fiera laicità), l’Arabia Saudita (islamista) e tutti gli stati del Nord Africa.

La visione di una guerra politica culturale e sociale di lunga durata contro l’islamismo, paragonabile a quella del dopoguerra contro il comunismo, presuppone di creare alleanze forti e di investire molto in propaganda, oltre che in armamenti. È un’impresa da far tremare i polsi, ma Trump – e con lui moltissime altre persone nel mondo – pensa che sia necessario iniziarla per garantire la sopravvivenza sul lungo periodo delle istituzioni e della cultura occidentale. Huntington aveva previsto che il futuro del mondo post-comunista avrebbe visto scontri non fra singoli stati, ma fra civiltà. Gli eventi degli ultimi trent’anni sembrano dargli ragione: l’islam un po’ ovunque sta riconquistando e affermando il proprio potere politico in opposizione alle istituzioni e alla cultura dell’Occidente, considerato Satana.

Trump inizia a cercar di creare la grande alleanza per lo scontro di civiltà a partire da Israele, scheggia di cultura occidentale e di stabilità politica in Medio Oriente. Netanyahu, che si è sempre comportato da abile statista, sarà abbastanza accorto per non mettere il proprio piccolo popolo in grave pericolo, accettando un ruolo simbolico che coalizzerebbe contro Israele tutti gli islamisti del mondo, senza avere vere e durature garanzie né dagli USA, né dall’Europa.

Trump inizia a cercar di creare la grande alleanza per lo scontro di civiltà a partire da Israele, scheggia di cultura occidentale e di stabilità politica in Medio Oriente. Netanyahu sarà abbastanza accorto per non mettere il proprio piccolo popolo in grave pericolo, accettando un ruolo simbolico che coalizzerebbe contro Israele tutti gli islamisti del mondo, senza avere vere e durature garanzie né dagli USA, né dall’Europa.

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