Mesopotamia: cento anni di guerre per il petrolio
Parte II - Dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi

09/03/2016

Dopo la Seconda guerra mondiale, in tutto il Medio Oriente si costituirono stati indipendenti, secondo i confini ipotizzati da Inglesi e Francesi nei decenni precedenti.

Nel 1952, in piena Guerra Fredda, una ribellione di ufficiali guidati dal colonnello Nasser rovesciò la monarchia in Egitto, proclamò la repubblica e avvicinò politicamente l’Egitto all’Unione Sovietica. Nel 1956 Nasser nazionalizzò il Canale di Suez, sino ad allora gestito da Inglesi e Francesi, e lanciò il progetto panarabo, cioè l’unione di tutte le popolazioni arabe un unico stato, ispirato al socialismo. Nel 1963 anche in Siria e in Iraq presero il potere giovani ufficiali appartenenti al Partito Ba'th, o Partito del Risorgimento Arabo Socialista, partito nazionalista panarabo, laico e socialista.

L’ideologia panaraba socialista di Nasser si scontrò non soltanto con i contrastanti interessi degli stati arabi ricchi di petrolio rispetto a quelli senza petrolio, ma non riuscì neppure a tenere unite e in pace le diverse tribù arabe all’interno di un stesso stato, soprattutto se appartenenti a sette religiose diverse.

Il fallimento del panarabismo lasciò le repubbliche del mondo arabo non soltanto prive di legittimazione politica, perché le istituzioni repubblicane erano una novità importata dall’occidente, ma anche prive di coesione etnica, perché i confini erano stati definiti artificialmente dagli Europei, eccetto quelli dell’Egitto; inoltre prive di legittimazione sociale, perché le dittature instaurate dai presidenti baatisti si ressero sulla dura repressione dei dissidenti e sul favoritismo nei confronti dei gruppi etnici o religiosi che li sostenevano. Iniziò così una serie di ribellioni, tentate insurrezioni, guerre civili che diventarono via via sempre più violente e distruttive. Più stabili all’interno si sono sino a ora rivelate le monarchie arabe, che tradizionalmente hanno un ruolo di mediatrici fra gli interessi delle tribù.

Visto che né l’ideale socialista né quello nazional-democratico portavano pace, giustizia e sviluppo economico, alcuni politici e pensatori svilupparono ideologie politiche e sociali basate sul ritorno all’antico islam, illudendosi che società governate da leggi arcaiche possano tornare a essere ricche e forti nella realtà odierna, come lo furono fino a 500 anni fa. Tali ideologie politiche vengono oggi definite islamiste. Molti gruppi islamisti sono diventati anche jihadisti, cioè sostenitori della guerra santa contro gli infedeli e gli eretici, come fase necessaria prima di instaurare lo stato giusto, perché retto dalla sharia − ovviamente secondo la loro interpretazione − arcaica e radicale.

Anche l’islamismo si sviluppò in Egitto, parallelamente al panarabismo. Nel 1954 l’egiziano Sayyd Qutb diede nuovo impulso al movimento dei Fratelli Musulmani, attivo in Egitto fin dal 1928, sostenendo che la decadenza dei popoli arabi era causata dalla cultura occidentale e dalle leggi copiate dai sistemi occidentali. Nasser provò a portare Sayyd Qutb dalla sua parte politicamente, ma non ci riuscì. Lo fece allora arrestare per complotto. Fu condannato a morte e ucciso nel 1966.

La prima vittoria degli islamisti fu quella degli Ayatollah in Iran, che nel 1979 rovesciarono lo scià e istituirono una repubblica retta dalla sharia nella sua forma sciita. Questo successo confermò gli islamisti nelle proprie convinzioni anche al di fuori dell’Iran. L’Arabia Saudita, tradizionale rivale dell’Iran per il controllo delle risorse della regione del Golfo, da allora sostiene e finanzia tutti i gruppi islamisti sunniti che si sono andati creando nei paesi arabi. In quanto custodi dei luoghi originari degli Arabi e dell’Islam, la famiglia regnante dei Saùd considera l’islamismo il migliore strumento di egemonia sulle popolazioni arabe e islamiche.

Durante la guerra afghana degli anni ’80 furono milizie islamiste a sconfiggere i Sovietici. Una di queste, con a capo il saudita Bin Laden, dopo la sconfitta dei Sovietici sfidò l’Occidente, portando la guerra nel cuore di New York l’11 settembre 2001. L’Occidente riportò la guerra sul suolo dell’Afghanistan, che sosteneva e ospitava al Qaeda, poi anche nel vicino Iraq . Qui i vecchi soldati e ufficiali dello sconfitto Saddam Hussein, cacciati dai loro incarichi nel 2003, si avvicinarono all’islamismo jihadista dell’ISIS − Stato Islamico di Iraq e Siria − feroce gruppo jihadista fondato da militanti di al Qaeda, potenziandone le capacità militari e strategiche.

Nel frattempo le popolazioni di altri paesi arabi, cresciute di numero ma rimaste povere, con economie arretrate ad alto tasso di disoccupazione, continuano a vivere a fianco di popolazioni arabe ricche di gas e petrolio. Il confronto fra le proprie condizioni di vita e quelle di altre parti del mondo oggi è possibile e immediato, grazie alla diffusione della televisione, dei telefoni cellulari e di internet. Lo scontento è così rapidamente gonfiato, portando i giovani a ribellarsi ai propri governi in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Siria. Chiamammo queste rivolte ‘primavere arabe’. Ma le primavere non portarono al potere i giovani, per lo più laici e occidentalizzati, che si erano ribellati per primi, bensì gruppi islamisti tradizionalisti, presenti e organizzati da decenni nelle moschee, anche se soffocati dai governi.

Ora assistiamo a una tremenda guerra di gruppi jihadisti sempre più estremisti, armati fino ai denti, che fanno strage prima di tutto dei loro concittadini di altra tribù, di altra setta religiosa, di altra etnia, per ridurli in condizioni di sudditanza, al fine di impadronirsi delle risorse, soprattutto petrolio e gas, in Iraq, in Siria, in Yemen, così come nei paesi africani ricchi di petrolio, dalla Libia al Sudan, dall’Algeria alla Nigeria.

Ma non basta impadronirsi dei giacimenti di petrolio, occorre anche portarlo fino a un porto di mare per poterlo esportare. L’ISIS non è riuscito ad arrivare alle coste del Mediterraneo in Siria, perciò deve accontentarsi di vendere di contrabbando e a basso prezzo il petrolio tramite i vicini, fondamentalmente tramite la Turchia. Ma questo contrabbando è stato gravemente ostacolato dall’intervento russo, che ha mostrato al mondo i luoghi del contrabbando e li ha bombardati, smascherando anche il doppio gioco della Turchia. Perciò ora l’ISIS ritenta in Libia, partendo dalla costa, dove sboccano i terminali degli oleodotti, in modo specifico dalle città di Sirte, Bengasi e Derna. Si calcola che a inizio del 2016 in quella zona ci siano già 3000 combattenti di ritorno dalla Siria e dall’Iraq, addestrati da un ex-generale del vecchio esercito di Saddam.

L’ingresso della Russia nella guerra civile in Siria ha sparigliato le carte. Perché la Russia è intervenuta? Perché ha un duplice interesse nella regione: innanzi tutto salvaguardare la sua base navale sul Mediterraneo, attualmente a Tartus, da cui può controllare il Bosforo e i Dardanelli, cioè l’accesso al Mar Nero, l’unico mare caldo su cui si affaccia la Russia per i suoi scambi con il resto del mondo. La Russia deve poi mantenere la calma in tutta la regione di frontiera a cavallo del Caucaso e del Mar Caspio, area ricchissima di gas e di petrolio, in cui le aziende russe hanno pacchetti di controllo di quasi tutte le società che estraggono e distribuiscono energia. La Russia ha fatto il suo ingresso nel conflitto proprio colpendo la Siria con missili lanciati dalle sue navi nel Mar Caspio. Ha così dimostrato che i suoi missili possono controllare tutte le regioni e i mari attorno ai suoi confini meridionali, utilizzando le basi navali nel Mar Caspio, nel Mar Nero e sulle coste della Siria.

Ora nelle guerre civili in Siria e Iraq combattono sul terreno non soltanto varie milizie locali, variamente schierate, ma anche i Russi lungo la costa, le Guardie della Rivoluzione Iraniana nel sud dell’Iraq e attorno a Damasco. I Turchi sono entrati cautamente in territorio siriano nella zona di frontiera di Jalabalus per tenere sott’occhio i Curdi, ma temono di scontrarsi con gli interessi Russi. Gli Americani hanno costruito un aeroporto a Rmailan, in un remoto angolo della zona curda della Siria che si incunea tra le zone curde dell’Iraq e della Turchia. Di lì appoggiano con rifornimenti e droni le operazioni anti-ISIS dei Curdi. I Curdi combattono contro l’ISIS sia in Siria sia in Iraq.

L’ISIS in Mesopotamia è ormai contenuto in una gabbia, anche se non è ancora sconfitto. In gabbia sono anche gli altri gruppi ribelli armati che si combattono sul territorio, jihadisti o laici, che perciò prima o poi saranno costretti a cercare soluzioni negoziate. Ora però l’ISIS ha portato la guerra jihadista sulle coste della Libia, a pochi chilometri da noi. In Libia non possiamo contare sull’intervento dei Russi o degli Americani per isolare e contenere il pericolo: lì siamo noi Italiani ad avere i maggiori interessi in gioco, poi i Francesi e gli Inglesi. Perciò il rischio che la guerra ci coinvolga è molto elevato.

 

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