La Gran Bretagna
e l’Unione Europea

13/10/2015

Nei prossimi anni i cittadini britannici saranno chiamati a decidere se rimanere nell’Unione Europea oppure no. L’ultimo referendum sull’argomento fu tenuto nel 1975, e allora il 67% votò a favore. Come andrà questa volta?

La Gran Bretagna è un’isola dotata di terreno fertile, fiumi navigabili, clima propizio all’agricoltura e all’allevamento, carbone e legname in abbondanza. Condizioni perfette per una vita pacifica e dedicata al commercio sul mari, a patto di non avere vicini potenti e bellicosi, desiderosi di sottomettere l’isola e di bloccare i suoi commerci col resto del mondo. La necessità di evitare il sorgere di una grande potenza europea capace di sottomettere la loro isola o di bloccarne le coste ha sempre obbligato gli Inglesi a essere attivi nella politica europea.

Quando i suoi molti e grandi mercanti e avventurieri portarono l’Inghilterra a costruire un impero con una flotta e un esercito potente per proteggere i commerci, la maggiore difficoltà per gli Inglesi non fu combattere con gli Asiatici o con gli Africani o con gli Americani, cioè con gli abitanti delle terre con cui commerciavano in condizioni di egemonia, ma fu combattere con altri Europei che volevano costruire un loro impero concorrente e tentavano di affondare la marina inglese non lontano dalle sue stesse coste.  Così gli Inglesi si trovarono impegnati in durissime guerre sul mare prima con la Spagna, poi con la Francia, poi con la Germania.  

Le due Guerre Mondiali del XX secolo sfiancarono l’Inghilterra − e tutti gli altri paesi europei.  Tutte le potenze europee persero i loro imperi, persero l’egemonia sui mari e nei cieli. L’Inghilterra dovette persino ricorrere al razionamento dei prodotti alimentari fino agli anni ’60:  la popolazione negli ultimi 150 anni era talmente cresciuta che l’agricoltura dell’Isola copriva appena metà delle sue necessità alimentari. Occorreva importare metà del cibo necessario alla sopravvivenza dai paesi del Continente, ma le finanze inglesi erano allo stremo, la sterlina si svalutava costantemente, il debito pubblico era altissimo.

Nel frattempo l’Europa occidentale aveva costituito, sin dai primi anni del dopoguerra, una Comunità Economica imperniata sulla piena collaborazione fra Francia e Germania. La Comunità Europea non costituiva un pericolo per l’Inghilterra, perché non aveva né un esercito né una politica estera propria. Farne parte avrebbe aperto agli Inglesi l’accesso al libero commercio con i paesi che già ne facevano parte: più possibilità di esportazioni per i manufatti inglesi, costi inferiori per l’importazione di prodotti alimentari.  Però i paesi del Commonwealth (la comunità economica creata dagli Inglesi con le loro ex colonie) non avrebbero potuto farne parte, e questo avrebbe ulteriormente allontanato gli interessi dell’Inghilterra da quelli delle sue ex colonie.

Nel 1973 l’Inghilterra decise infine di entrare a far parte della Comunità Europea, ma trovò che i paesi membri sin dall’origine avevano creato regole e meccanismi adatti alle loro necessità, non alle necessità degli Inglesi. Italiani e Francesi godevano di sovvenzioni all’agricoltura, i Tedeschi avevano la preminenza in campo industriale. Gli Inglesi iniziarono a trarre benefici dall’esser membri della Comunità Europea soltanto negli anni ’80, quando riuscirono a ottenere la creazione di un unico mercato finanziario europeo in cui Londra fu subito egemone, e ottennero anche la riduzione dei costi sostenuti per finanziare l’agricoltura degli altri paesi.

Londra è rimasta la capitale finanziaria d’Europa anche dopo la creazione dell’euro, benché non sia membro dell’eurozona. Oggi il 55 % del PIL inglese è prodotto dai servizi alle imprese e dai servizi finanziari. Soltanto gli Stati Uniti hanno un’economia finanziaria di entità superiore. Ora la domanda è: per mantenere competitiva e florida l’economia finanziaria e i servizi alle imprese, all’Inghilterra conviene rimanere nell’Unione Europea oppure no?

Circa il 40% degli introiti inglesi da servizi finanziari proviene da paesi europei. Nel 2014 la BCE chiese che il regolamento dei conti fra le banche dell’eurozona avvenisse in futuro all’interno dell’Eurozona stessa, non tramite banche di altri paesi. Questo avrebbe tolto a Londra una gran parte di transazioni e di utili, che si sarebbero probabilmente riversati su Francoforte. L’Inghilterra ricorse immediatamente contro il provvedimento presso la Corte Europea di Giustizia e vinse. Ecco un esempio di quanto possa essere utile per l’Inghilterra continuare a essere presente all’interno dell’Unione Europea, aver voce e peso nelle decisioni e diritto di appellarsi alle istituzioni europee.

Londra ha anche opportunità fuori Europa: è il maggior mercato per le transazioni finanziarie dei paesi islamici in Occidente, è il maggior mercato per la transazioni finanziarie in RMBY (la valuta cinese) al di fuori della Cina stessa. Ma la concorrenza in questi mercati è in forte crescita: Singapore, Hong Kong e gli Stati Uniti mirano ad appropriarsi di sempre maggiori fette dei mercati finanziari asiatici. In Europa Londra gioca in casa, in quanto membro dell’Unione, ed è impossibile scalzarla da parte di concorrenti non europei.

Far parte dell’Unione Europea offre anche maggiore sicurezza alla Gran Bretagna: l’Unione è tenuta a proteggere i suoi membri da aggressioni esterne, anche se non ha ancora un esercito unico né un’unica politica estera. E l’Europa ha bisogno di poter contare anche sulla forza dell’economia e dell’esercito inglese, della sua magnifica Marina.

È dunque prevedibile che l’Inghilterra discuterà accanitamente migliori condizioni e più ampi margini di indipendenza dalle decisioni della Commissione Europea, ma alla fine farà tutto il necessario per rimanere in Europa. Così come l’Europa farà tutto il possibile per mantenere l’Inghilterra al proprio interno. Un’Europa senza Londra non sarebbe Europa.

 

La necessità di evitare il sorgere di una grande potenza europea capace di sottomettere la loro isola o di bloccarne le coste ha sempre obbligato gli Inglesi a essere attivi nella politica europea.

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